Molti osservatori giudicavano fortunato il governo Renzi poiché avrebbe agganciato la ripresa internazionale. Dopo i primi provvedimenti all’insegna di meno rigore e di un poco di spesa in più, l’Italia è ripiombata in recessione e premier e ministro del Tesoro annunciano la fine di quella timida politica espansiva avviata sulla scia della ripresa prodotta altrove. Come ormai siamo abituati dall’esplosione della crisi, a metà anno i dati vengono rivisti al ribasso per quasi tutto il vecchio continente, tanto che per l’Istat il calo del Pil italiano è imputabile alla compressione della domanda estera, segno che le cose non funzionano a livello internazionale. Per l’Italia si torna a parlare di manovre straordinarie e persino di aiuti dalla troika. L’incubo torna a essere il debito pubblico. In effetti dal governo Monti, passando per Letta e giungendo a Renzi il debito pubblico è costantemente salito sia in termini assoluti sia in relazione al Pil. In due anni questo rapporto è salito dal 120 a oltre il 135%. Un debito considerato fuori controllo.

L’economista Giavazzi ha affermato che il rischio per il 2015 sarà il default con un rapporto debito/pil verso il 150%. Le politiche di austerità però non producono crescita e per la verità non ne producono a sufficienza neppure quelle espansive sul lato finanziario di paesi come Usa e Giappone. Come ammette Padoan, «la recessione è davvero profonda». Il problema è che neanche una crescita da prefisso telefonico come lo 0.8% (previsione comunque troppo ottimistica del governo) consentirebbe il ridimensionamento del debito. E dunque stando ai diktat della Ue i famigerati compiti a casa non avrebbero mai fine. C’è inoltre da considerare che i prezzi non salgono e siamo al limite della deflazione. Questo pericolo per un’economia di mercato ha implicazioni pesanti anche sui conti pubblici. Recentemente Luigi Zingales ha evidenziato come l’attuale contesto, sul lato dei conti pubblici, non sia poi migliorato. Quando lo spread era a 518 punti il rendimento dei titoli decennali era del 6.50% e c’era un’inflazione al 3.1%. L’interesse reale era così del 3.4%. In quest’ultimi mesi con lo spread che ha attorno ai 150 punti il decennale si è attestato al 2.70%, ma con un inflazione scesa al 0.3%. Quindi il tasso reale che sembra sceso di circa 370 punti in verità è diminuito solo di 100. Non solo: al tempo in cui il tasso era al 6.50%, il tasso medio dei titoli in circolazione era più basso, intorno al 4.1%, con un interesse reale di solo l’1%. Oggi anche se il tasso è dato al 2.70%, il tasso medio è ancora al 3.9%, che significa un tasso d’interesse reale del 3.6%. Tutto ciò per dire che il costo reale dell’indebitamento anziché diminuire è addirittura aumentato.

Zingales conclude che «oggi le condizioni di sostenibilità del debito pubblico italiano sono peggiori di quelle del 2012», in quanto incidono fattori come l’avanzo primario (che l’Italia realizza da tempo) e la differenza tra il tasso d’interesse reale e quello di crescita dell’economia. Per non far aumentare il debito con un tasso d’interesse reale al 3.6% e con un tasso di crescita reale previsto attualmente a -0.3% su base annua l’Italia avrebbe bisogno di un avanzo primario del 5.3% (calcolato moltiplicando lo stock di debito su Pil, che è pari a 1.37, con la differenza dei due tassi di crescita), mentre oggi questo surplus è solo al 2.6%. Cifre da fantascienza. Ma se i vincoli europei resteranno immutati, la strada del fallimento tornerà un’eventualità concreta. A quel punto la partita sarà su chi dovrà pagare il conto, ma non per restare dentro i parametri Ue, quanto per salvare i conti pubblici. Prepariamoci per tempo a una campagna per la ristrutturazione del debito democratica e selettiva in grado di ribaltare i consueti dogmi dell’economia.