Quando, postumo di quattro anni, viene pubblicato nel 1971 Il romanzo del Novecento, Giacomo Debenedetti è noto come un critico dalle intuizioni geniali, dall’argomentare originale e dalla scrittura tesa, accesa in un contrappunto di metafore. All’uscita di quell’imponente volume cambia perfino fisicamente la fisionomia del grande critico, fin allora affidata a libri di mole contenuta, che hanno preso forma cumulando diverse prove di quella che è la forma prediletta e naturale per Debenedetti. Tre di quei libri li ha addirittura intitolati Saggi critici. Ora invece ci si trova, con Il romanzo del Novecento, di fronte a una narrazione distesa, accerchiante, argomentante per centinaia di pagine. Si tratta di un lungo, ostinato interrogatorio condotto fissando la lampada di Proust o Joyce o Kafka sull’opera di Tozzi – rivelato nella sua grandezza –, Pirandello, Svevo, Serra, Borgese e tanti altri: e le pagine sulle epifanie, la memoria involontaria, le intermittenze di cuore, sull’invasione dei «brutti», sui personaggi moderni descritti secondo il principio di indeterminazione di Heisenberg si fisseranno nella memoria dei lettori e resteranno a dimostrazione di come, in critica letteraria, ogni strumento può essere messo in campo per stanare verità nascoste.
Nel corso degli anni si saprà che quel volume, che contiene i quaderni inediti utilizzati da Debenedetti come appoggio per tenere i suoi leggendari corsi universitari (leggenda della quale l’università non si accorse) è solo il primo di una serie stupefacente (gli altri saranno dedicati alla poesia, a Montaigne, Tommaseo, Verga, Pascoli). Si tratta degli ultimi sei anni di insegnamento: dunque nelle pagine parla l’ultimo Debenedetti che si intreccia in scrittura con i memorabili saggi raccolti in Il personaggio-uomo, ugualmente postumo, e con le note fulminee scritte per accompagnare i preziosi libretti della «Biblioteca delle Silerchie».
Per usare una parola debenedettiana, il destino di quei quaderni è incerto e sta nelle mani della moglie di Giacomo, Renata Orengo, una donna che conosce il talento della scrittura, come testimonia tra l’altro l’elegante sobrietà del suo Diario del Cegliolo. Cronaca della guerra in un comune toscano: giugno-luglio 1944 (All’Insegna del pesce d’oro, 1965, recentemente riedito in un’anastatica fuori commercio). Al Cegliolo la famiglia Debenedetti (Giacomo, Renata e i figli Elisa e Antonio) si trovava ospite per iniziativa di Pietro Pancrazi, che l’aveva sottratta a Roma e a quella persecuzione razziale della quale Giacomo dà testimonianza in 16 ottobre 1943.
La volontà manifestata da Debenedetti nei suoi ultimi giorni era che non si pubblicasse nulla di ciò che aveva lasciato inedito. Dopo la sua scomparsa, Renata comincia a leggere i quaderni e decide che vadano salvati. Così copia i manoscritti con una macchina da scrivere elettrica e si rivolge per un parere a colui che, scomparso Giacomo, invitato a pranzo da Renata, aveva compiuto un gesto inatteso, insieme familiare e solenne, ricordato da Antonio Debenedetti nella pagina finale di Giacomino, la memoria dedicata alla figura del padre: «Al momento della pastasciutta, Contini si era alzato, aveva preso la zuppiera e ci aveva serviti. “Non posso fare diversamente, sedendo alla tavola di Giacomo ora che lui non c’è più”». Commenta Antonio: «Fu quello, credo, il più segreto, il più straordinario dei numerosi omaggi resi da Contini a Debenedetti». Il parere di Contini riguardo la pubblicazione è favorevole, così come lo sarà quello di Geno Pampaloni. Resta da individuare un editore che assecondi quel voluminoso libro. È Enzo Siciliano a far da tramite con Livio Garzanti, che poi pubblicherà tutti i quaderni inediti. Il romanzo del Novecento esce infine con un’introduzione di Montale, vecchio amico di Giacomo e Renata.
«Celebriamo sentimentalmente, e commemoriamo, in Francesco De Sanctis colui che, della gloria letteraria, gustò l’alloro più amaro, il più tardo e il più restìo: l’alloro del critico», aveva scritto Debenedetti in un suo saggio. Certe volte quell’alloro non arriva mai: che dunque un libro di critica resti di intatta vitalità dopo circa cinquanta anni è un caso rarissimo, che comporta l’alloro del classico: non ha smesso la propria energia, presentandosi anzi come un nodo in letteratura, se da lì provengono non si sa bene quante suggestioni, quanti spunti, quanta intelligenza. Il romanzo del Novecento riappare in nuova veste editoriale ma immutato nel testo (compresa la nota di Montale) con l’aggiunta di una doppia introduzione (La nave di Teseo, pp. XXXVIII-658, € 25,00). La prima, Un genio visto da vicino, porta la firma di Mario Andreose ed è una testimonianza insieme lucida e partecipe sull’attività editoriale di Debenedetti, svolta particolarmente nel decennio che parte dal 1958, anno in cui Alberto Mondadori fonda il Saggiatore. Da quell’anno alla scomparsa (20 gennaio 1967) Debenedetti, direttore editoriale, è l’anima dell’impresa e lascia la propria impronta sull’intero catalogo, capitolo non minore del quale è la «Biblioteca delle Silerchie» – se ne è accennato – dai piccoli indimenticabili volumi regolarmente accompagnati da note critiche che colgono momenti soprattutto di alta letteratura, lasciandoli risuonare in libertà. La vicenda editoriale si intreccia con quella dell’insegnamento e in particolare con i sei anni dei corsi sul romanzo (dal 1960-’61 al 1965-’66).
La seconda introduzione, Irrupit Novecento, è di Massimo Onofri, che rivisita con acutezza alcuni passaggi fondamentali del Romanzo, a partire dalla contrapposizione di Debenedetti a Contini (ma forse la fusione delle lezioni dei due grandi maestri ha trovato anch’essa i suoi adepti). Con acribia, Onofri ripercorre particolarmente l’atteggiamento di Debenedetti riguardo Serra e Borgese: un’esplorazione che evidenzia come quando Debenedetti mostrava vicinanza (per Serra), a ben leggere era lontananza, e viceversa (per Borgese). La ricostruzione ha un suo fascinoso fondamento e, anche dove andrebbe discussa, dà immediato profitto, perché mostra quanto siano sottili e ramificate le strategie di Debenedetti, mai riconducibili a un formulario buono per tutti gli usi.
Giusta è la constatazione di come, capitando nel contesto del trionfo strutturalistico e semiotico – quando la letteratura sembrava potersi indagare con schemi e teoremi che mal sopporta –, il Romanzo suggerisse invece, secondo un’espressione di Debenedetti, un destino di disponibilità, evidente non solo nel libro postumo ma in tutta l’arte critica di lettore affilato, spinto sempre da una testarda e ansiosa volontà di capire. Perciò nemmeno va dimenticato che quella disponibilità arrivò al punto di accogliere nelle «Silerchie» uno dei primi campioni di critica strutturalistica in Italia, Gli orecchini di Montale di D’Arco Silvio Avalle.
Chi conosce Il personaggio-uomo, quinta raccolta di saggi di Debenedetti, uscita postuma nel 1970, pochi mesi prima del Romanzo, non solo coglie evidenti sovrapposizioni, utili per capire «come lavorava Debenedetti», ma si accorge di come l’argomentare distillato dei saggi, raddensati e incantatorî, avesse origine in un lungo lavoro analitico intorno a stessi oggetti, presentato infine per fulminanti scorciatoie anziché per i distesi viali delle lezioni, piene di interferenze e scorciatoie pure loro, e debitrici alla qualità del grande saggista, ma ampie nel distendersi del ragionamento, creando immagini a scopo didattico anziché con intento analogico. Con l’avvio della pubblicazione dei quaderni si rivelava intera «l’opera di raffinatissima qualità; della quale, lettore aggiornatissimo, conversatore stupendo, Debenedetti non si curò di essere sagace amministratore» (Contini). Quale amministratore infatti avrebbe voluto distrutto quell’arcipelago postumo? Questo fu, nel 1971, l’apparizione – l’epifania, l’intermittenza di cuore – del Romanzo del Novecento, dove Debenedetti era anche un detective, interpretava tracce, sospendeva e poi, inarcando, riprendeva più in là. Sperimentava sapendo che ogni risposta genera una nuova domanda. Un critico e un personaggio-uomo la cui professione si dice essere «quella di risponderci, ma molto più spesso siamo noi i citati a rispondergli»; e se gli chiediamo di identificarsi, «esibisce la placca dove sta scritta la più capitale delle sue funzioni, che è insieme il suo motto araldico: si tratta anche di te».