La seconda campagna presidenziale di Bernie Sanders si è, a tutti gli effetti, conclusa nel secondo martedì di marzo 2020. Nel “pretty big tuesday” delle primarie, Joe Biden ha ripetuto l’exploit del precedente Super Tuesday, inanellando vittorie in quattro stati su sei. Biden è prevalso in modo schiacciante nel profondo sud (con un devastante 81% in Mississippi) dove ha trionfato grazie ad un elettorato afroamericano anziano e sostanzialmente conservatore. Si è imposto decisamente (60% e 34%) in Missouri, nella pancia del Midwest, dove quattro anni fa Sanders aveva “pareggiato” con Hillary Clinton, e rotondamente (53% e 36%) in Michigan, stato chiave della rust belt dove nel 2016 Sanders Hillary l’aveva battuta. Il Michigan è dirimente anche perché è lo stato che i democratici devono assolutamente riconquistare da Trump per avere speranze di vincere la casa bianca a novembre.

Il dato più devastante è proprio il paragone negativo con il 2016, che nega la narrazione di Bernie come depositario dell’energia vincente del partito nell’anno della elezione “esistenziale”. Bernie stesso lo ha ammesso nelle dichiarazioni dell’indomani fatte in Vermont: «Mentre abbiamo vinto la partita ideologica, abbiamo perso quella sull’eleggibilità. Ovviamente non sono d’accordo ma il fatto è che milioni di elettori stanno esprimendo questa opinione». Parole amare in bocca al candidato più ideologico, appunto, quello con la piattaforma più radicale e dettagliata (a parte possibilmente quella meticolosa di Elisabeth Warren). Quello che ha costruito la rete più capillare delle organizzazioni grass roots e prodotto una mobilitazione durata anni e diffusa sul territorio e comunità.

A lui gli elettori democratici hanno preferito, stanno preferendo, il candidato più blando e meno “politico” di tutta la rosa record che era inizialmente composta di 20 pretendenti. Ognuno aveva espresso piani programmatici più precisi di Joe Biden, protagonista di una delle rimonte più clamorose mai storicamente registrate dopo i fallimenti nei primi stati. Biden l’ha ottenuta spesso senza nemmeno fare campagna negli stati che gli hanno dato, uno dopo l’altro, la preferenza (e deve essere questo lo smacco più cocente per il diligente lavoro organizzativo della campagna Sanders). Certo, senza precedenti è stata anche la fulminea compattazione del campo moderato (in cui non è difficile ravvisare se non il dirigismo, almeno il contributo dei vertici del partito), ma i numeri restano comunque perentori.

Bernie ha sì costruito una coalizione appassionata, trasversale e multietnica, un elettorato di giovani motivati, che si pone come futuro annunciato del partito e forse della politica progressista in generale, specie se si considera la considerevole componente working class. Ma a differenza della rainbow coalition assembrata da Obama, la coalizione di Bernie stenta a superare la barriera generazionale. Per Sanders in Michigan hanno votato l’80% degli under 30, il 59% degli elettori minori di 45 anni – senza però registrare l’affluenza necessaria a controbilanciare la maggioranza silenziosa ma diligente degli anziani più moderati.

Si pone allora una domanda: perché dopo 3 anni di Trumpismo l’elettorato progressista avrebbe meno impeto che nel 2016? (La questione diventa ineluttabile se si somma la performance deludente di Elisabeth Warren) Si potrà discutere sulla “socialdemocrazia” e sui trigger emozionali che innesca tuttora l’evocazione del socialismo in un elettorato, quello americano, che risente di traumi da propagande da guerra fredda, che precludono tuttora conversazioni razionali (e abilitano il contrario: non solo Bloomberg, ma anche Buttigieg sono ricorsi a retorica “anticomunista” come strumento anti-Bernie). Resta tuttavia, e pesa come un macigno, il dato matematico: la coalizione progressista non ha oggi i numeri per vincere la primarie.

Oltre alla matematica, occorre considerare una questione più profonda sulla mancata Bernie revolution. Più che un progetto politico di sinistra o “socialista” l’elettorato sembra disertare l’idea stessa di “progetto politico”. È lecito pensare allora che abbia influito il Trump derangement syndrome, che al disegno eversivo del trumpismo abbia fatto seguito non tanto la motivazione radicale quanto una sorta di precipitosa fuga verso la ri-normalizzazione e la serenità, il vago recovery terapeutico offerto dalle generiche rassicurazioni di zio Joe sulla “decenza” (e c’è da chiedersi quale sia stato il contributo dell’ulteriore incertezza viralmente insinuatasi nel corpo politico).

Dall’era Trump sta emergendo per ora non una lucida coscienza della minaccia esistenziale alla democrazia. Non una risposta politica chiara alle pratiche eugenetiche e xenofobiche alla plutocrazia e immoralità sistemica e alla rottamazione climatica operata dal trumpismo, ma l’impulsiva voglia di normalizzazione. Non l’analisi della situazione americana come sintomo di una instabilità sistemica globale, ma la sindrome post traumatica di un paese stremato.

Nella sua dichiarazione Bernie ha ribadito l’intenzione di proseguire la battaglia, ma mai prima un suo discorso era tanto assomigliato ad un concession speech – o almeno all’anticipo di una resa. O meglio, all’apertura di un negoziato. Sanders ha detto di essere pronto al primo confronto diretto a due (domenica in Arizona) «col mio vecchio amico» Biden. Ed ha anticipato le domande che gli porrà dato che non è pensabile procedere senza il sostegno dei giovani che rappresentano il futuro. Quindi: «Cosa farai, Joe» per i lavoratori che devolvono il 20% dello stipendio ad assicurazioni mediche private (ed il mezzo milione che per questo ogni anno dichiara bancarotta)? «Cosa farai?» per rendere la salute un diritto umano, per permettere alla scienza di reagire al mutamento climatico, per consentire a tutti l’accesso gratuito alle università, per smantellare l’ipertrofico complesso penale-industriale, cessare il terrore cui sono attualmente sottoposti gli immigrati ed i vergognosi tassi di povertà infantile e homeless. «Cosa farai?» per porre fine all’osceno e insostenibile divario sociale?

È stata al contempo un’apertura e un’ultimatum. Non poteva esserci decalogo più chiaro o migliore sintesi del dilemma politico cui Biden e l’establishment moderato dovranno dare chiara risposta a partire da subito se vorranno avere la possibilità di battere Trump – e ciò che rappresenta.