Il sintagma «fratelli De Rege» per lo spettatore odierno, quando non rappresenta un puro flatus vocis, nella migliore delle ipotesi non dice molto. Eppure «Vieni avanti, cretino!» è una formula ancora riconoscibilissima all’orecchio: coniata, appunto, da un duo celebrato prima e oggi perso nel vapore di un passato irrimediabilmente leso. Guido (Bebè) e Giorgio (Ciccio) De Rege sono la più celebre coppia comica dell’avanspettacolo anni trenta-quaranta, fautori di gag esilaranti, precursori di toni ironici e sardonici che farebbero tutt’oggi impallidire parecchi tra i neoteroi. Nati a Caserta, ma provenienti da una ricca famiglia piemontese, sono consegnati alla storia non per gli scarsi documenti rimasti, ma per i ricordi vividi di chi li conobbe. Ricordi che hanno dato vita, come spesso succede nel teatro, a una leggenda fumosa e affascinante, da loro stessi alimentata in virtù di quella «reticente simbiosi» che li estraniava dal mondo: vivevano insieme, ma in tre, perché uno di loro era sposato.
Se poco si sapeva della nascita, anche la dipartita sembra avvolta nelle tenebre. Guido è scomparso a Milano nel 1945 e il suo corpo è probabilmente finito in una fossa comune. Di Giorgio, morto a Torino nel ’48, manca la tomba. «Dei De Rege non esistono testimonianze autobiografiche, non esistono fondi pubblici, non esistono tracce nelle più importanti biblioteche o centri studi o musei teatrali italiani». Nicola Fano, giornalista ed esperto di teatro, con la prima edizione del libro De Rege Varietà (Baldini Castoldi Dalai 1998), al termine di una lunga e appassionata inchiesta, ha letteralmente «riscoperto» i fratelli: ne ha rivelato gli albori, il nobile lignaggio, i legami con la Rivoluzione sovietica, l’ostracismo familiare, le manie e le malinconie scandite da un carattere contraddittorio ed elusivo.
I capitoli di questo saggio-memoriale, scritto con la scioltezza di un romanzo fiction, sono aperti nel titolo da una data precisa che racconta fatti accaduti verosimilmente in quel giorno. Avvincente è, ad esempio, la cronistoria di Mercoledì, 24 febbraio 1937, in cui i De Rege recitano al Teatro Principe di Roma un bellissimo sketch – dal titolo emblematico Dramma giallo – con un grado di paradossalità pari a Karl Valentin e al suo Tingeltangel. Guido incontra Ciccio che, trafelato, gli chiede di indicargli un impresario teatrale: ha scritto un dramma in tre atti e vuole assolutamente sottoporglielo. Guido fiuta la burla, si fa raccontare la trama: aspetta il compare al varco per redarguirlo o farsi beffe di lui. Il dramma («giallo», perché contiene un mistero finale) si intitola L’aurora, il pomeriggio e la sera tardi. L’incipit la dice lunga sull’andamento dell’opera: «“Primo atto – racconta Ciccio a Guido –, in una stanza da letto mezza al buio”. “Perché al buio?” “Mezza al buio: è l’aurora”. “Ah, bravo, ti sei tenuto al titolo. Bravo: aurora, pomeriggio, sera. Bravo”». Prosegue Ciccio: «Verso la fine del primo atto il pubblico, non vedendo nessuno sulla scena, dice: “Mah, dormiranno ancora”, e cala il sipario». Dopo un secondo atto ugualmente flemmatico, contro le rimostranze dello spazientito Guido, Ciccio aggiunge: «Aspetta adesso, al terzo atto, c’è la tragedia». Di nuovo la stanza da letto, questa volta c’è «uno che dorme» e un ladro nascosto sotto il giaciglio che aspetta dal primo atto, all’insaputa dell’autore («è questo il giallo»). Nell’attesa (di cosa?) il ladro pensa di fumarsi una sigaretta, ma lo sfregamento del cerino potrebbe far chiasso e, dunque, ha l’eccellente pensata di coprire il rumore con uno starnuto. Il dormiente si sveglia e dice: «Qui c’è qualcuno». Al che il ladro risponde: «No, no».
Le battute sono inframmezzate dalla ricostruzione di Fano, sempre puntuale, con scorci di vero lirismo, che mostra dedizione nel lasciar «respirare» al lettore il palcoscenico e l’atmosfera rarefatta di un teatro popolare ma elegante, in grado di misurarsi con i grandi maestri dell’assurdo del Novecento, come Beckett e Ionesco. In misura certamente ridotta, nel breve spazio di una dicotomia comica, i De Rege riproducono quei meccanismi topici del letteratura drammatica e della narrativa d’avanguardia, avvicinandosi alla forma sintetica e quasi illogica di concepire il comico, che molto somiglia a Daniil Charms.
Questa seconda edizione (Effepi Libri, pp. 180, euro 12,00), del tutto rinnovata, è arricchita di racconti inediti scoperti in seguito: dalla militanza di Ciccio nella Resistenza milanese al recente e travagliato ritrovamento di un loro film nella Cineteca di Tirana. Senza una «biografia probabile» si sarebbe adombrato da tempo il mito di due tra i performer più acclamati del Novecento italiano. Sepolto sotto il breve battito dell’ultimo applauso, il successo dei De Rege incarna l’irripetibilità del gesto. Ed è questo il bello dell’ars scaenica che, nel mondo tecnocratico, vive ancora dell’unica banca-dati possibile: la memoria. «Il segreto del teatro – chiosa Fano – sta nella sua inafferrabilità, nell’impossibilità di ricordarlo per come in effetti è e per la necessità di trasformarlo in leggenda subito dopo chiuso il sipario. Un privilegio che nessun’altra arte può vantare».