Filippo de Pisis, “Volto di ragazzo”, 1931, Bologna, coll. privata

 

Commentando il segmento verticale ottenuto da Édouard Manet nel quadro Argenteuil mediante l’allineamento perfetto tra la ciminiera di una fabbrica sullo sfondo e la cima pendente dalla vela della barca più vicina a chi guarda, T.J. Clark notava che cose simili possono avvenire solo nella pittura: nella complessa fenomenologia del mondo quegli effetti durano un istante e poi si perdono. Questa idea mi è tornata in mente visitando la mostra di dipinti, acquerelli e disegni di Filippo de Pisis allestita al Palazzo Altemps di Roma, a cura di Pier Giovanni Castagnoli (fino al 20 settembre, catalogo Electa). Quella romana è la seconda tappa di un’esposizione passata al Museo del Novecento di Milano (e recensita su queste pagine da Giuseppe Frangi), dove era offerta una scelta assai più ampia di dipinti a olio (qui ne rimangono una trentina su ottanta). Roma si giova però della presenza di parecchi disegni e acquerelli, assenti a Milano, molti dei quali assai belli, provenienti da tre nuclei diversi. Sono in gran parte ritratti, volti e corpi di modelli, accarezzati dallo sguardo innamorato del pittore, assieme a nature morte di fiori, altro tema preferito da de Pisis, un soggetto quest’ultimo che gli consente di mantenere in tensione la fresca bellezza dell’attimo (si veda, in questa mostra, il dipinto Dalie e gladioli del 1933) e il senso acuto della sua caducità.
L’allestimento gioca spesso sul rapporto fra le opere depisisiane ospiti e quelle della collezione permanente del Palazzo, alla ricerca, talvolta, di relazioni paradossali o ironiche. Alcune delle opere pongono tuttavia in modo stringente la questione del rapporto fra de Pisis e l’Antico, a partire da quella con cui la mostra si apre, L’archeologo (1928), dove un piccolo signore con bastone e cappello si aggira fra le rovine frammentarie di statue gigantesche disperse in un paesaggio. Il tema è quello, dechirichiano, del legame ormai perduto con la Storia e della nostalgia per il prestigio inarrivabile dell’arte antica. È ben noto quanto sulla formazione di de Pisis, dalla metà degli anni dieci a Ferrara, abbia contato il rapporto con i due fratelli de Chirico. Come mostrano ad esempio tante opere su carta di questa mostra, tuttavia, il riferimento al passato in de Pisis è spesso un pretesto: nei nudi i riferimenti alla statuaria antica si stemperano a contatto con la carnalità fremente del corpo vivo dei modelli. A causa della reazione spontanea alla sensualità del mondo il modo di dipingere di de Pisis è quindi lontano da quello di de Chirico. L’eccezione sono alcuni esercizi, alcuni presenti in mostra (ad esempio la Natura morta occidentale, 1919), dove compaiono gli oggetti incongrui delle nature morte di de Chirico, del quale de Pisis simula anche l’indifferenza per la stesura pittorica.
Alla cerebralità dechirichiana, a lui sostanzialmente estranea, de Pisis reagisce cercando un’immediatezza espressiva capace di restituire il calore di un rapporto con il mondo che si esprime anche nel trattamento della materia pittorica (aspetto cui Castagnoli dà ampio spazio). Ben presto quindi la pittura diventa per de Pisis uno strumento in grado di cogliere il mondo nella sua transitorietà, sottolineata non mediante le qualità atmosferiche, al modo degli impressionisti, ma tramite l’accentuazione delle dimensioni liriche ed emozionali dell’immagine. Per questi motivi l’arte di de Pisis non è mai facile, come egli stesso per primo si affanna a sostenere: casomai, al suo meglio, è felice perché, nell’inseguire il tempo, egli è capace di restituire l’emozione provata di fronte al reale nel momento in cui si fa più acuta. L’intensità dell’approfondimento esistenziale delle qualità temporali della pittura rende difficile trovare artisti da disporre con de Pisis in una possibile costellazione, della quale, secondo Fabrizio D’Amico, potrebbero far parte Scipione e Fausto Pirandello e poi Alberto Giacometti e Nicolas de Staël.
Quel tanto di «meraviglioso» che l’arte di de Pisis conserva della metafisica spiega le incongruità spaziali della sua pittura, come nelle nature morte dove per uno strano sortilegio (un «crampo», per rubare una parola a D’Amico) grandi oggetti in primo piano (pani o conchiglie) si staccano sullo sfondo di un mare lontano, con un salto di scala sorprendente: cose simili, lo dicevamo sopra, succedono soltanto in pittura. A Parigi, dove egli si sposta (dopo anni vissuti a Roma) nel 1925, resta lontano dal Surrealismo. E de Chirico, che nel 1926 lo introduce, generosamente, al catalogo della personale alla galleria La Sacre du printemps, comprende perché: De Pisis «conosce il bel segreto di mostrarci le cose più correnti nell’atmosfera più curiosa». Il «demone delle cose» per de Pisis è sempre terrestre.
Il quindicennio trascorso a Parigi fra il 1925 e il 1939 è probabilmente il più felice della sua vita: gli amici, le feste, le eccentricità mondane, le cene, i ragazzi… Uno di loro compare nell’olio Il marinaio francese, del 1930, un dettaglio del quale appare sulla copertina del catalogo. Il giovane è visto di fronte, nella bella uniforme blu, con il cappello in testa; ma è goffo, rigido, come se fosse in posa nello studio di un fotografo di provincia. Non incrocia il nostro sguardo, ma rivolge i grandi occhi vellutati un po’ di lato. Dopo esserci lasciati catturare dal protagonista del quadro, scopriamo una a una le magie della composizione: il rapporto fra la figura e le linee astratte dello sfondo, la cura nel disporre la testa del marinaio sull’angolo della cornice che si disegna sulla parete di fondo, entro la quale pende dall’alto il fantasma di un guanto di gomma. Quest’ultimo, citato da Le Chant d’Amour (1914) di de Chirico, nel quadro di de Pisis non si accompagna al calco in gesso candido della testa dell’Apollo del Belvedere, ma a un volto di bellezza terrena, impastato di giallo e rosa.
Quante volte (lo notava Roberto Tassi) de Pisis ha scritto nelle lettere all’amico Giovanni Comisso «pulchriora latent», le cose più belle si nascondono: nel Marinaio francese, come in tanti altri quadri d’interni, di figura e nelle nature morte, l’artista le cerca dove le forme variegate dei fiori o i tratti mossi di teste e capigliature si incontrano con le boiserie o le cornici dei quadri appesi alla parete, nelle relazioni fra oggetti, fisionomie e superfici astratte. Come pure nei paesaggi, de Pisis scopre le cose più belle nell’unico luogo dove è possibile che gli si svelino: nell’immagine dipinta. Così diventano meravigliosi i tratti del viso di un ragazzo incontrato per caso, le conchiglie disposte di fronte a un lontano orizzonte marino e i famosi Pesci marci (1928, non in mostra), raccolti una sera per strada già putridi, avvolti in un giornale vecchio e portati nello studio il tempo necessario a dipingerli per poi essere restituiti alla strada direttamente dal davanzale della finestra su cui il pittore li aveva appoggiati affinché riflettessero il colore argentato della luna.
Per capire questi aspetti del lavoro di de Pisis credo possa aiutare l’idea di «costituzione d’oggetto» che individua la fase in cui, secondo Cesare Brandi, l’artista con gli occhi e l’emozione estrae dal mondo un «nocciolo» di verità estetica per poi tradurlo in pittura. È in questa fase che de Pisis individua i pulchriora nel mondo immediato e passeggero del sensibile e dà vita a un ‘meraviglioso’ così diverso – lo aveva compreso nel 1932 proprio il ventottenne Brandi dopo avere visitato l’artista a Parigi – dal ‘metafisico’ di de Chirico.