De Pisis a Parigi: gli anni d’oro in solitudine, con i ragazzi
Il pennello di Pippo de Pisis, tra i Venti e i Trenta, ci rivela una Parigi vorticosa ma non alla Baudelaire, intima ma non proustiana. Il suo «impressionismo» si nutre di occasioni di strada come l’epifania di un pesce marcio e giovani canaglie vengono attratte e spogliate nello studio di Saint Sulpice, dove lasciano i loro indumenti
Il pennello di Pippo de Pisis, tra i Venti e i Trenta, ci rivela una Parigi vorticosa ma non alla Baudelaire, intima ma non proustiana. Il suo «impressionismo» si nutre di occasioni di strada come l’epifania di un pesce marcio e giovani canaglie vengono attratte e spogliate nello studio di Saint Sulpice, dove lasciano i loro indumenti
Sono seduto davanti al mare tunisino con un foglio e una biro. Se devo scrivere di De Pisis il dolore come una serpe esce dal suo nascondiglio per dirmi che Pippo non lo ha mai visto questo mare; il groviglio dei bagnanti da cui si stacca la splendida sagoma di un ragazzo per tuffarsi in acqua. E noi, come si sa, rimaniamo a terra con quella visione. Un mare omerico e virgiliano e, con una vecchia battuta, le ceneri di Didone che ancora vorticano intorno. Il ragazzo che si è tuffato, per un tempo incalcolabile rimane sott’acqua; so che ha trovato i preziosissimi gusci delle George V. Li porta a terra e il dolore della serpe del cuore si fa più vivo perché non potrò dire la bellezza di quei piedi attorno ai quali il ragazzo ha deposto la sua preda. Condiremo gli spaghetti. Come De Pisis quando trovava una foglia di alloro caduta sul marciapiede e la portava a casa per profumare l’arrosto.
Devo raccontare De Pisis a Parigi. Non ho uno straccio di documento che mi aiuti a delineare l’oggettività di quel suo lungo soggiorno, e allora dovrò scendere dentro di me e ritrovare le prime immagini di questo personaggio quando a quindici anni, trovato in casa un album delle sue pitture, il loro incanto ha cominciato a inseguirmi, cambiando in più di un senso la mia vita.
«È passato di qua quello scemo di De Pisis»: l’antipatia di Alberto Savinio non avrà requie per quel ragazzo snob esibizionista trasformista, chiacchierone inarrestabile, che è De Pisis a Ferrara durante gli anni della Prima guerra, il quale ospita i fratelli De Chirico in fuga da un’eventuale chiamata alle armi; portati dalla mamma, la signora Gemma.
Vent’anni dopo a Parigi durante le feste di Capodanno i due, Savinio e Pippo, si affronteranno in una sfida al braccio di ferro. Pippo che si è sempre vantato della sua prodezza fisica viene sopraffatto. Dolorante ma soprattutto offeso di quell’aggressività per nulla scherzosa, Pippo abbandona la festa e si avvia a piedi verso casa. Fa un gran freddo e Pippo è vestito solo di veli che egli stesso ha dipinto, punto di outrance nell’abbigliamento mai in seguito superata. Lo scafandro di ripulsa e dabbenaggine in cui lo ha chiuso Savinio è solo supposto, perché in realtà Pippo è amabilissimo e pieno di risorse. Durante le passeggiate sulle mura di Ferrara, è stato attratto dal tipo di vegetazione che attecchisce qua e là; incomincia a raccogliere alcuni esemplari, e a mano a mano arricchisce la sua raccolta fino a completare un erbario preso in considerazione dagli esperti e oggi visibile in uno scaffale dell’Università di Bologna. E poi abbandonate le mura fa lunghi giri in bicicletta nella campagna ferrarese e dove c’è una chiesa o una chiesetta o solo un capitello, si ferma, ispeziona l’interno e scopre un esercito di ignoti pittori locali che hanno affrescato le pareti. Scrive dei saggi che restano un non trascurabile documento. E poi? Laureato a Bologna con una tesi sul Pascoli, spinto dal padre, il religiosissimo nobile Ermanno Tibertelli, molto attento al bilancio famigliare, si adatta alla carriera di insegnante di scuola media. Poggio Mirteto è la prima tappa, dove i ragazzi, per partecipare alla sua intimità, entrano bucando le pareti della sua stanza d’affitto, come nei quadri classici. Ma alla fine parte anche il treno della fortuna che lo porta a Parigi nell’età d’oro degli anni venti-trenta. Ci sono molti altri pittori italiani che hanno lo stesso progetto ma Pippo dipende tutto dalla volontà di vivere da solo; con infinite occasioni di incontri con qualche grande pittore o letterato ma soprattutto con i jeunes sans travail che pullulano in certe parti della città. Non desidera affatto impadronirsi di Parigi ma scivolare dentro di essa per carpirne le minime vibrazioni sotto lo splendore accecante di Eros. Un Eros ansioso sempre inappagato. Fino al momento in cui Pippo lo cattura con una pennellata dopo l’altra.
Non sono passati molti anni da quando dietro le passeggiate del barone De Charlus si formava una scia di gioventù tra cui era difficile distinguere un bravo ragazzo dalle giovani canaglie, anche se erano queste ultime a prevalere. Non credo che dietro Pippo si formasse quella scia, perché il fiuto dei ragazzi lo aveva già catalogato come un pittore spiantato. Ma forse esiste la solidarietà tra poveri e Pippo non ha alcuna difficoltà a far entrare nel suo studio-dimora con cucina i ragazzi che ha incontrato per strada. Si immerge nella folla che ritrae nel suo andirivieni con sullo sfondo, perché no?, la Tour Eiffel. Nella foga cittadina Pippo a ogni passo trova quello che da sempre cerca, un angolo appropriato alla sua solitudine e alla contemplazione. Un pesce marcio buttato in strada, lo raccoglie e se lo porta a casa avvolto in un giornale. Lo hanno incantato i colori del disfacimento che trasferisce in un celebre quadro. Pippo che è solito esplodere in euforie inarrestabili e scandalose, ha nel suo animo una piega profonda per commiserare i falliti della vita, i derelitti, i fiori recisi che marciscono nei vasi, i pesci marci trovati per strada. Va all’inaugurazione di una mostra di Matisse; ma è uno dei pochi contatti che ha con la pittura di Parigi; meglio qualche scrittore come Mauriac e soprattutto meglio la solitudine. A ora di cena entra nei negozi di alimentari e compra verdura cotta, un po’ di formaggio da portare a casa e mangiarli distrattamente deponendo un’ultima pennellata sul quadro issato sul cavalletto. I tubetti dei colori sono stati strizzati sulla tavolozza, e se manca un colore, beh, se ne può fare a meno; anzi mescolando altri colori l’effetto potrà essere stupendo. Le sue dimore parigine. Sempre in affitto passa dal centro di Saint Germain a Place Sulpice, dietro la chiesa le cui campane non smetteranno mai di rintronarlo. Sono due stanze e il lavoro della pittura le invade tutte e due. I ragazzi sans travail imparano presto la strada per poi posare nudi su una finta pelle di leopardo. Non si sa in quali dosi l’eros si mescolasse all’arte; forse meno di quello che si crede. Le sedute durano pochissimo; come Luca Giordano detto Luca fa presto, Pippo conclude il suo quadro in meno di un’ora e quando il giovane si accinge a rivestirsi, Pippo trattiene il suo indumento intimo che andrà ad arricchire la collezione conservata dentro un armadio. Durante una delle sue frequenti visite, Comisso apre distrattamente la porta dell’armadio e viene investito dal suo contenuto da cui si allontana con orrore e spavento per le possibili infezioni. «Sì, è vero, dice Pippo, da parte di padre io sono nobile, marchese, ma gli antenati di mia madre erano straccivendoli». Chi viene a Parigi dall’Italia, sa che attraverso lui la città rivelerà ogni suo segreto. Arriva il professore Gianfranco Contini, che di lui scriverà un mirabile ricordo, e arriva il giovane Cesare Brandi che infischiandosi delle regole accademiche che impedirebbero di interessarsi di artisti viventi, nello studio di De Pisis trova l’essenza stessa della vita parigina. E poi in successione o insieme arrivano gli amici più cari: Palazzeschi, Marino Moretti, Umberto Saba. Pippo col tono professorale imparato insegnando a scuola illustra gli aspetti ufficiali, ma è dietro di essi che si trova la parte più interessante. Come un mago delle Mille e una notte, Pippo fa apparire a ogni angolo di strada un giovane sorridente, pronto a un’allegra battuta gergale dal doppio senso. Il più vulnerabile è Marino Moretti che sa quanto sarà breve il suo soggiorno parigino dovendo presto ritornare nell’irreprensibile Cesenatico. Pippo a Parigi è una stella vagabonda, nei felici anni trenta, prima del diluvio. I ragazzi attratti nel suo studio con la promessa di una piccola mancia non sanno quanto egli si stia appropriando della loro bellezza. Le linee dei fianchi, una gamba sollevata per nascondere il grande mistero del sesso, altre volte esibito con un rebus di macchie; gli occhi allargati dal loro stesso splendore.
È questa la Parigi di De Pisis come la Berlino di Isherwood. Un passato oggi irriconoscibile. Anche se qualche volta il diavolo ha infilato la sua coda. Pippo abita ancora a Saint Germain, e due ragazzi ospiti dello studio lo aggrediscono a scopo di rapina. Una bottiglia ( la «bottiglia tragica» oggetto di un futuro quadro) viene calata sulla sua testa; le conseguenze sono relative, Pippo viene soccorso da due pittori russi ma egli è già entrato nell’immaginazione della Rivoluzione e si crede un nobile dell’Ancien Régime portato al martirio.
C’è in una raccolta di Stoccolma uno splendido ritratto scultoreo di Marino Marini. È un’opera memorabile che, detto banalmente, rappresenta l’infelicità della sessualità condensata nella smorfia di Pippo che significa l’attesa di soddisfare il desiderio e la dolorosa delusione di averlo soddisfatto. Quando dopo anni di insonnia e depressione Pippo verrà ricoverato nel riparto psichiatrico di Villa Fiorita a Brugherio, che cosa ricorda degli anni di Parigi? Forse nulla. Tanti amici lo soccorrono ma nessuno della famiglia. Gli dicono: ti sei speso troppo, in ogni senso; mangiando male, trascurandoti, mettendoti troppo alla mercè delle giovani canaglie che amavi e che noi ritroviamo nei tuoi quadri; hai scavato nella Parigi degli anni trenta come un archeologo sulle tracce di un Apollo sconosciuto. E la tua Parigi era un tripudio di gente allegra, dedita ai piaceri della vita, che tu come una farfalla inseguivi di fiore in fiore. Hai fatto di Parigi una città che non conoscevamo, vorticosa ma non alla Baudelaire, intima ma non proustiana. Eri solo a coltivare le tue gioie e le tue disperazioni, passando attraverso i ponti verso una luce che a ogni istante intravvedevi dentro di te.
Ora nella stanza della clinica congeda in fretta gli amici che lo amano come non mai. Ma quando esce nelle strade di Brugherio, scandalizzando i bravi lombardi perché di tanto in tanto si ferma e piscia senza precauzioni contro un muro, si ferma davanti a un cortile pieno di animali, e tornato in clinica nella orangerie che gli hanno concesso come studio, rinnova il miracolo di trascrivere il mondo pascoliano nei suoi colori.
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