E chi si sarà mai azzardato a scrivere un «coccodrillo» su Manoel de Oliveira? E a quale età avranno cominciato a pensare di scriverne uno? Ottant’anni? Novanta? Alla fine, data la scorza di questo signore portoghese nato a Oporto («fossile di Oporto», così lo chiamava João Cesar Monteiro), c’era il rischio che lo scriba potesse passare a miglior vita prima di lui. Credo che nessuno, per scaramanzia, abbia mai osato scriverne uno.

Mi è capitato di incontrare Manoel De Oliveira nel novembre del 2008, a Bologna, all’interno di un festival intitolato Le parole dello schermo. A Rimini, in quei giorni, gli avrebbero consegnato il Premio Fellini. Insomma, all’epoca aveva novantanove anni. Le fonti anagrafiche sono ambigue. Quelle ufficiali dicono che è nato l’11 dicembre del 1908. Ma girava voce che di anni se ne fosse tolto qualcuno. L’ho incontrato per intervistarlo. In maniera gentile mi ha detto che avrebbe preferito mangiare un gelato e – magari – fare l’intervista dopo. Era novembre inoltrato. Ho sgranato gli occhi ed è finita che abbiamo solo gustato il gelato.

Dopotutto, credo che sia stato meglio così. Oggi che se n’è andato davvero, all’età di 106 anni, considero quel gelato condiviso con lui un sereno momento ricreativo, passato con qualcuno che non amava tromboneggiare sulla propria produzione artistica – anzi. Avrebbe potuto atteggiarsi come «venerato Maestro», predicare mantenendo una posa (l’oratoria era uno degli strumenti «tecnici» che lo intragavano maggiormente – vedi ad esempio Palavra e utopia), ammorbando il mondo con digressioni letterarie, artistiche. Invece amava mantenere un profilo basso. Questione di decorum appunto, frutto di un’educazione ricevuta (immagino) familiarizzando con i trattati sull’oratoria di Quintiliano, Cicerone, fino alle Lettere al figlio di Lord Chesterfield. Tutto quello che aveva da dire lo metteva nei film.

https://youtu.be/Aj0yJyFw97k

Un’idea di cinema senza regole dove tutto è possibile. Era lì, nei film, che lo spettatore poteva assistere allo srotolarsi e al dibattersi di un vero e proprio teatro delle passioni: filosofiche, religiose (Acto de Primavera), amorose. Benilde, Angelica, la Ema della Valle del peccato (sono i primi esempi che mi tornano in mente): qualcosa come un ingrandimento dei sentimenti viene colto nella gestualità, nella parola, infine nello sguardo straniato, ambiguo, di alcune figure colte in un atto cinematografico capace di rendere evidente il dubbio che ognuno di noi prova davanti ad una parola che si fa immagine. Noi siamo i verificatori di questi piccoli teatri, specie di fiabe, della loro tenuta: la tenuta dell’immagine. In ogni film di Manoel de Oliveira siamo presi dentro questo spazio liminare macchinato dalla finzione.

Cosa può il corpo di un attore, modulato su una serie di racconti, dialoghi, conversazioni, specie di marionetta senza carattere, o psicologia? Dramma, commedia? La figura rende semplicemente percettibile lo spazio del loro svuotamento: nessun vero e proprio dramma, se non la sua finzione. Le passioni vengono dibatutte: come a teatro, appunto. E de Oliveira, filmando la parola, rendendo plastica la giusta distanza tra il corpo e la macchina che lo riprende (ma per fissare cosa? Il nulla della sostanza di cui sono fatti i fantasmi?) ci dice infine che il cinema non ha regole, e che tutto è possibile.

Bidimensionalità dell’inquadratura, scelte delle focali, invenzioni improvvise come lampi (Inquietudine): sì, il cinema non ha regole, è così; e se gli chiedi che cos’è il cinema?, ti senti rispondere: gelato, gelato. Non so perché, ma ripenso a quel lungo carrello nel finale (ma era il finale?) di Viaggio all’inizio del mondo, alle inquadrature di interni vuoti in O dia do desespero, e alla ruota panoramica in Place de la Concorde, filmata in Ritorno a casa. Mi ha sempre fatto pensare ai meccanismi della proiezione, al tempo stesso che si srotola nel proiettore. Forse il cinema è davvero fatto solo per questo: farci testare la presenza dei fantasmi. Il tempo di una durata di proiezione.