La fama è un credito salato: chi ne ottiene un anticipo in vita deve spesso pagarne lo scotto nei lunghi decenni d’oblio che seguono alla sua morte, laddove, invece, altri, che hanno condotto una vita più parca d’allori, godono poi in pace d’una indiscussa gloria postuma. Vanitas vanitatum! Giuseppe De Nittis appartenne al primo gruppo: coi suoi aerei pastelli, i suoi scorci di boulevard affollati, le sue dame ingualdrappate di serica spuma ebbe più successo degli impressionisti più intransigenti, i quali borbottavano, innanzi ai successi del pittore barlettiano, che «non è il soggetto a fare il quadro».
In effetti, per quel attiene ai temi, De Nittis è confratello dei Monet, dei Pisarro e dei Renoir: alle corse dei cavalli, soggetto fra i suoi favoriti, dedicarono egualmente i loro studi Degas e Manet, per non dire dello Zola che ambientò in un ippodromo una delle scene più celebri di Nanà. Ma quanto alla tecnica? Su De Nittis venne espresso un genere di riserva simile a quella espressa da molti critici su Boldini, indicato da Umberto Eco quale tipico esempio di Midcult: «pittore delle signore, è l’artefice di ritratti che costituiscono per il committente una fonte di prestigio e un oggetto di piacevole consumo. (…) Se si osservano le sue tele, si nota come il viso e le spalle obbediscano a tutti i canoni di un raffinato naturalismo, (…) Non appena passa a dipingere la veste, quando dal corsetto scende alle falde della gonna, e dalla veste trapassa allo sfondo, ecco che Boldini abbandona la tecnica gastronomica (…) al piano superiore aveva fatto della gastronomia, ora fa dell’arte».
Del pari si potrebbe dire di De Nittis che, se il taglio dell’immagine e la resa degli effetti atmosferici possono ricondursi alle sperimentazioni condotte in quei medesimi anni dai pittori impressionisti, il gusto dei dettagli minuti e la civetteria mondana richiamano piuttosto la maniera del Tissot o dello Stevens. Sicché molta critica prese a ragionare delle sue opere in termini di prodotti altamente potabili per il pubblico borghese, di bevande con una soluzione d’avanguardia al 9 per cento.
Le ragioni del discredito di De Nittis (al quale Parigi, dopo la prima del 1886, non ha più dedicato una retrospettiva fino al 2010, anno della grande mostra al Petit Palais) sono da ricercarsi in questa immagine di pittore pour le bonheur des dames, d’addomesticatore di cataclismi estetici, sulla quale l’esposizione De Nittis e la rivoluzione dello sguardo, curata da M. L. Pacelli, B. Guidi e H. Pinet (Ferrara, Palazzo dei Diamanti, fino al 13 aprile) ha voluto oggi fare chiarezza, mettendo l’arte del pittore a confronto con quella dei fotografi e dei primi cineasti.
A questo proposito c’è un aneddoto: negli anni in cui De Nittis si trasferì a Parigi una legge aveva imposto il divieto di dipingere per strada. La soluzione trovata dal pittore fu alquanto ingegnosa: «Per dipingere dal vero – riporta Bérgerat – si era fatto costruire una vettura speciale, una sorta d’atelier su ruote, che fermava in un punto preciso e sulla quale lavorava». Sostando agli angoli delle piazze, nei boulevard, all’uscita dei negozi, De Nittis ritraeva quella porzione di spazio che veniva a essere delimitata dal finestrino della carrozza, dimodoché «l’atto del dipingere dall’interno della vettura si configurava come concettualmente simile a quello messo in atto dal fotografo per inquadrare».
Lo si osserva in opere come Place des Pyramides (1875) o in La profumerie Violet (1880), i cui ventagli orientali esposti in vetrina richiamano alla mente quanto in queste angolazioni dissimmetriche l’insegnamento della fotografia si unisse alle suggestioni dell’arte giapponese, visibili anche nei ritratti Tra i paraventi (1879), Giornata d’inverno (1882), austera sinfonia di bianchi, e, soprattutto, Effetto di neve (1880), coi sui contrasti salienti fra il piano e lo sfondo che ricordano certe descrizioni dei Goncourt.
Anche al di fuori del suo atelier ambulante, il pittore trovò soluzioni assai simili a quelle dei fotografi, come si ricava confrontando la sua serie di vedute del Vesuvio in eruzione con quelle d’analogo soggetto realizzate con la macchina fotografica da Giorgio Sommer. E sempre nella sollecitazione fotografica rientra quel suo tanto biasimato gusto per i dettagli. Si è detto che in termini d’audacia formale De Nittis non si accostò mai alle spregiudicatezze di Monet. Il suo Tra le spighe (1873) non è paragonabile per invenzione pittorica a La passeggiata (1875) del maestro parigino, dove la figura è come rapita nel pulviscolo cromatico. De Nittis, tuttavia, è più umano, più aneddotico: la sua è una pagina di romanzo, quella di Monet, no.
Più generalmente in De Nittis non c’è quell’abbandono, molle ed elastico, alla vibrazione della luce che doveva condurre Monet al nirvana luminoso delle Ninfee. In lui era soprattutto curiosità delle cose. Pittore della vita, del moto: predilesse le stazioni, le carrozze, le strade, prima quelle di campagna (in uno dei suoi primi quadri, Traversata degli Appennini, 1867, aveva rappresentato una lunga strada, una striscia di grigia mota, sotto una grigia striscia di nuvole accese qui e lì di chiazze bianche), poi della metropoli. Originario della piccola città di Barletta, dovette sentire nella mobilità inesausta della capitale una malia esotica, come il movimento flessuoso di una baiadera.
In un altro meridionale, Vittorio Pica (che al pittore dedicò una fra le monografie più equilibrate), si sente questa medesima fascinazione per «i larghi boulevards, coi due filari paralleli di grossi alberi fronzuti, coi chioschi dei rivenditori dei giornali, con le colonne della pubblicità, con le vetrine sfolgoranti delle ricche botteghe, con l’andirivieni incessante delle carrozze, dei carretti, degli omnibus (…) i grandi caffè e le birrerie scintillanti di lumi e dorature (…) i cafés-concerts, con lo sfoggio delle bizzarre tolette femminili, col fragore delle orchestre, col barbaglio pomposo dei costumi».
Una medesima curiosità di straniero magato hanno i lavori londinesi di De Nittis, Victoria Embankment (1975), Nebbia a Westminster Bridge (1878) – accostati dai curatori alle fotografie «pittorialiste» di Léonard Misonne –, nei quali la ricerca espressiva è concentrata sulla resa dei dati atmosferici. In quelle strisce di cielo scialbo, in quei soli come dilavati dall’umidore della bruma, egli aveva sentito, come Mallarmé nel poema in prosa La Pipe, il colore locale di Londra. Qui come a Parigi cercò la modernità. Nella tela Passa il treno (1879) la rappresentò mentre invade la silente campagna nel vapore della locomotiva che squarcia la triste monotonia rurale. Forse è troppo definire retrivo uno dei più efficaci illustratori della vita moderna.