Quando si ragiona su Venezia, è arduo tenere insieme in una visione consapevole il passato, il presente e il futuro. Giacché ciascuna delle tre scelte, quando è divenuta criterio prevalente nelle decisioni, ha comportato conseguenze gravi. Lo sguardo rivolto al passato ha generato piagnistei sulla grandezza perduta; l’interesse verso il presente ha favorito rapaci sfruttamenti; l’astratta utopia ha ideato scenari futuri senza valutare se fossero auspicabili, o realizzabili. La sintesi di questi piani, pur necessaria, è stata rara, e la vicenda della città e della regione lo mostra bene. Le nostalgie e le utopie hanno ceduto a un presente che cannibalizza città, individui e memoria, al servizio dell’immediato realizzo.
Per capire queste dinamiche sono buona guida alcuni saggi di Cesare De Michelis, che con il titolo Quante Venezie… appaiono ora, postumi, nella «Piccola Biblioteca di letteratura inutile» delle edizioni Italo Svevo (Trieste-Roma, pp. 142, euro 15,00). Il plurale è importante: plurali erano le Venetiae degli antichi (come ricordò una famosa pagina di Santo Mazzarino), plurali le «Tre Venezie» teorizzate da Graziadio Isaia Ascoli. Plurali sono anche, ma non sempre lo si ricorda, le identità del Veneto attuale: per l’irrisolta frattura tra laguna e terraferma, e per il caratteristico policentrismo, con realtà «medie» oltre alle città capoluogo. Diversa ambiguità è data in regione dall’oscillare contraddittorio «tra ansie di autosufficienza e volontà di proiettarsi all’esterno», quindi tra «orgoglio e umiltà», tra «separatezza e sudditanza» (verso la Lombardia, per esempio). Questa condizione si è accentuata dopo il rapidissimo decesso del Veneto contadino, che ha lasciato dietro di sé un vuoto in fretta e malamente riempito di capannoni e localismi. Lontani ormai, nella pianura sfigurata da rotatorie e outlet, i mondi letterari sereni e profondi del passato, remote le socialità «asolane» del Rinascimento, svanita la laboriosa erudizione settecentesca, sparita l’operosità borghese ancora leggibile nel Veneto novecentesco. Il fare (schèi) ha confinato la cultura e la letteratura «ai margini di ogni iniziativa di governo e persino di responsabilità educativa».
D’altronde, almeno dall’Ottocento, nel Veneto s’è svolto un estenuante confronto con la modernità: con esiti, nota De Michelis, specialmente importanti per Venezia. Per taluni aspetti la città pare, da quel 1797 che vide la caduta (senza rumore) della Repubblica aristocratica, alla perenne ricerca di un ruolo nuovo, individuato nell’industria, poi nel turismo d’élite, ora in quello di massa. Su Venezia, soprattutto del Novecento, molto resta da indagare. Nel libro sono due inquadrature emblematiche. La prima guarda agli anni della Prima guerra mondiale, quando la città fu travolta da una grave crisi di presenze e scambi, per poi trovarsi in prima linea, dopo Caporetto. L’altra racconta invece Venezia dagli anni quaranta agli anni sessanta: chiusa e conservatrice sotto vecchi ceti dominanti, ma anche sospeso rifugio di artisti. E al contempo, terreno di interventi notevoli, fosse l’aeroporto di Tessera, o l’azione di Vittore Branca alla Fondazione Cini. In quella stagione maturò anche il «problema» di Venezia, destinato a esplodere con l’alluvione del novembre 1966 e poi a sfilacciarsi in dibattiti infiniti. Dei quali quello sul M.O.S.E. appare ormai, in tutti i sensi, l’ultima edizione: l’attuale parco a tema prevedibilmente non genererà ulteriori discussioni.
L’ultimo saggio del volume narra la storia dei teatri veneziani: sorti dapprima come strutture effimere, destinate a uno sfruttamento rapido, poi evoluti verso un assetto più monumentale, creando un «sistema» che ebbe i massimi fasti nel Settecento, e del quale resta testimonianza nel Teatro alla Fenice, la cui risurrezione dalle ceneri dopo il disastroso incendio del 1996 chiude il libro. Le riflessioni dei saggi mostrano una lunga consuetudine, antropica e culturale, con Venezia e il Veneto. Dietro c’è un fondo politico, espresso in coerenza con la storia personale e familiare dell’autore. Ne deriva anche per il lettore lo stimolo a ulteriori sviluppi. Lo sguardo su Venezia, per esempio, va allargato a considerare anche la parte moderna della città. Mestre è centro della mobilità provinciale, e ospita funzioni economiche e istituzionali (e persone) un tempo nel centro storico: anch’essa è parte del controverso rapporto veneziano con la modernità, sfruttata ma negata. Altre integrazioni vengono dal «ritratto» che del Veneto si ricava dalla letteratura. Agli autori novecenteschi richiamati nel libro si aggiungono altri racconti della cruda e «brutta» realtà della regione, dal malmostoso Cartongesso di Federico Maino (2014), ai nevrotici Works di Vitaliano Trevisan (’16). Dove andrà il Veneto è ancora difficile dire: mezzo secolo fa, il cinema sùbito colse lo sfacelo della borghesia locale, con l’acre Signore e signori di Germi (1965), e con più malinconia nel Commissario Pepe di Scola (’69). De Michelis era troppo intellettuale e «illuminista» per amare questa chiave di lettura: ma oggi è il grottesco a cogliere la più efficace immagine delle Venezie.