La nuova classe rivoluzionaria? Sono i disoccupati, ma ancora non lo sanno. Un esercito che in Italia conta 3,1 milioni di persone e che secondo il professor Domenico De Masi, sociologo del lavoro e dell’organizzazione, ha delle potenzialità enormi. Lo studioso lo spiega nel suo ultimo libro, Lavorare gratis, lavorare tutti (Rizzoli), che – ci dice lui stesso – «vuole essere un testo militante, che punta a rompere il mercato del lavoro». La teoria del professore è in effetti dirompente: i disoccupati dovrebbero offrire il proprio lavoro in modo del tutto gratuito attraverso una app – «semplice semplice, come Uber» – e questo costringerebbe i lavoratori strutturati, i dipendenti e i professionisti, a cedere loro alcune ore del proprio impiego, pur di mettere fine a una concorrenza decisamente sleale.

C’è di che far rizzare i capelli in testa a qualsiasi sindacalista. I contratti nazionali tracollerebbero. Come le è venuta in mente questa idea?

La mia è una proposta di rottura, che mira a creare uno shock nel mercato del lavoro, oggi immobile. Ricette come il Jobs Act, dove si sono investiti 20 miliardi di euro per creare poche centinaia di migliaia di posti – peraltro volatili – hanno chiaramente fallito. Il lavoro gratuito, comunque, non sarebbe per sempre: serve nella fase della lotta, dopo seguirebbe l’accordo con i sindacati e si metterebbe fine alla disoccupazione.

Bene, allora spieghiamo meglio il suo progetto.

Partiamo dalla condizione del disoccupato: da quella dei miei studenti, ad esempio. Il primo anno dopo la laurea cercano lavoro con entusiasmo e accanimento, mandano curriculum in giro, ma pochi rispondono. Al secondo anno sopraggiunge la disperazione, al terzo la depressione. La sveglia al mattino suona per i loro papà, a volte per le mamme, ma loro restano a letto. Tre milioni e centomila persone in Italia vivono così, sprecando le proprie potenzialità e competenze: e non stiamo neanche contando chi ha rinunciato a cercare un posto. Sono atomi sperduti, non hanno un sindacato, una lobby, un giornale o un sito che li difenda: a differenza dei 23 milioni di lavoratori, che si tengono stretto il proprio lavoro. Tutte le ore, anche quelle di straordinario.

D’altronde tanti lavoratori, specie dipendenti, hanno salari bassi. Come biasimarli…

Non lo nego. Ma mai bassi come i redditi dei disoccupati, pari a zero. E spesso questi ultimi sono nostri figli o nipoti: se cedessimo loro anche un 10% delle nostre ore – sarebbe sufficiente, secondo la mia idea – non dovremmo più mantenerli. E, soprattutto, li faremmo uscire dalla depressione: il lavoro è anche realizzazione personale, contribuisce alla felicità.

Quali ore si dovrebbero cedere secondo i suoi calcoli?

Descriviamo la situazione italiana: la disoccupazione giovanile è al 40%, mentre in Germania è la metà. Solo il 36% dei nostri giovani è iscritto all’università, a Berlino lo è il doppio, e chi frequenta non è conteggiato tra i disoccupati. Guardiamo il mondo del lavoro: noi lavoriamo più ore che nel resto d’Europa, 1750-1800 medie l’anno contro le 1500 tedesche. Loro hanno il 5% di disoccupazione, noi il 12%. E, come se non bastasse, facciamo molti più straordinari, spesso neanche retribuiti: i manager italiani ad esempio sono circa 2 milioni, e fanno una media di due ore al giorno di straordinario. Risultano ben 4 milioni di ore al giorno, che se dividi per la giornata di 8 ore, danno 500 mila nuovi posti potenziali. C’è insomma chi fa troppo e chi fa niente: basterebbe che ciascuno dei 23 milioni di lavoratori cedesse il 10% delle proprie 40 ore settimanali ai disoccupati – cioè quattro – e lavorerebbero tutti.

I lavoratori però non le cedono, queste benedette ore.

E qui scatta la mia idea della piattaforma informatica: basta creare una app, semplice semplice, tipo Uber, dove tutti i disoccupati italiani offrono il loro lavoro gratis. Ti serve un idraulico? un medico? un avvocato? Sulla app lo trovi in pochi minuti. Lavorerà per te gratis. Una concorrenza brutale, che romperà il mercato del lavoro, e costringerà i sindacati a sedersi a un tavolo e a concordare la cessione del 10% di ore dai 23 milioni di lavoratori ai 3,1 milioni di disoccupati. Tra l’altro, la disoccupazione è destinata a crescere: a causa della globalizzazione, e per opera dell’intelligenza artificiale. I robot hanno già sostituito gli operai, le macchine intelligenti sostituiranno i creativi, i giornalisti, i medici.

Un nuovo patto sociale. Glielo ha suggerito Keynes?

Una sua profezia. Nel testo Prospettive economiche per i nostri nipoti, del 1930, Keynes scriveva: se nella fase in cui le tecnologie moderne saranno sviluppate, la settimana lavorativa sarà ancora superiore alle 15 ore, la disoccupazione schizzerà alle stelle. I nipoti di allora sono i giovani di oggi. La profezia si è puntualmente avverata.

Lei i 20 miliardi del Jobs Act dove li avrebbe investiti?

Li avrei messi tutti sulle università: borse di studio e stipendi dei professori. Non si fanno più concorsi, abbiamo ancora docenti di 15 anni fa e assistenti di 50-60 anni. È un sistema folle, bloccato. Mentre in Germania, come ho spiegato, con molti più giovani all’università, meno ore di lavoro e meno straordinari, la disoccupazione è molto più bassa. E poi se investi sulla scuola la società diventa più colta: studiare serve anche per capire un giornale, per votare con coscienza, per educare i figli.

Vuole insomma «mettere la sveglia» ai disoccupati, ai precari. Ma non le sembra che con il voto del 4 dicembre – il No ha spopolato tra gli under 30 – e con la rivolta contro i voucher, i giovani abbiano già in parte detto la loro?

Senza dubbio nel voto del 4 dicembre c’è stata anche una ribellione contro il Jobs Act. E adesso il governo, per non dover affrontare un nuovo referendum, ha buttato anche quel che di buono poteva esserci nei voucher. Per piccoli lavori, per le vendemmie o le raccolte, erano utili a mio parere.

Energie fresche che potrebbero confluire in un nuovo partito socialista, o del lavoro? O dobbiamo rassegnarci all’attuale tripolarismo?

Rassegnarsi mai. Dal Pci di Togliatti, comunista, si è passati con Berlinguer a un partito socialdemocratico. E adesso Renzi sta cercando di fare del Pd un partito neoliberale. Le sue politiche infatti hanno danneggiato chi ha meno e chi lavora, tanto che a punirlo elettoralmente sono le periferie, mentre il Pd vince ai Parioli. Secondo me la contrapposizione liberisti contro socialdemocratici ha ancora un grandissimo senso, e tutto si deciderà quando capiremo verso quale lato pendono i Cinquestelle. Per questo non ho trovato sbagliata l’idea di Bersani di dialogare con loro: bisogna tirarli verso la socialdemocrazia, mentre Renzi al contrario punta ad allearsi con Berlusconi. Meglio di gran lunga con l’M5S che con Forza Italia.

Ma la sua piattaforma la realizzerà veramente?

Sì, ci sto pensando. Ho già tante proposte: un gruppo di informatici disoccupati siciliani, due sviluppatori di piattaforme bolognesi, e tanti altri. Io vorrei investirci i ricavi del mio prossimo libro, in uscita a breve: una ricerca sul mondo del lavoro che ho fatto l’anno scorso. Se riuscissimo ad avere anche solo un milione di iscritti alla app, il successo sarebbe assicurato.