Il Pd in Campania fa i conti con i cocci lasciati dal partito a trazione renziana-de luchiana. I numeri finali del referendum dicono che in regione ha vinto il No con il 68,52%, 9 punti in più rispetto al nazionale. Il 68,28% a Napoli dove, secondo l’istituto Cattaneo, più del 40% degli elettori Pd ha respinto la riforma. La portata della sconfitta però si misura nelle roccaforti che avrebbero dovuto consacrare le due leadership: a Salerno, città del governatore Vincenzo De Luca, il No raccoglie il 60%, una ribellione impensabile alla vigilia del voto. Cadono anche due centri simbolo: Agropoli, il comune del sindaco Franco Alfieri (a cui De Luca aveva chiesto di portare voti al Sì offrendo fritture di pesce), dove il No è al 67,78%. Peggio va a Ercolano, amministrata dal renzianissimo Ciro Bonajuto, molto vicino a Maria Elena Boschi: qui il No supera il 68%. In Campania si è consumata la vendetta dei territori.

Ieri De Luca ha evitato i microfoni, preferendo una nota scritta: «Gli elettori hanno respinto in modo netto la proposta referendaria. E’ il tempo dell’umiltà e della responsabilità. I risultati dell’azione di governo nel campo sociale, dei diritti civili sono stati azzerati da punti di criticità, che hanno creato un clima di diffusa ostilità. Abbiamo riscontrato delusione e opposizione nel mondo della scuola, in relazione alla riforma delle province, al nuovo codice degli appalti. E’ apparsa unilaterale e non chiara la riforma della Pubblica amministrazione. La questione dell’immigrazione e la sicurezza urbana hanno pesato fortemente. E nel Sud è emerso un malessere sociale».

De Luca negli ultimi anni è passato da dalemiano a bersaniano per poi tradire e appoggiare Renzi, in ogni riposizionamento ha portato in dote un bacino di voti bulgaro (il 73% per Renzi nelle primarie del 2013), il consenso in cambio di incarichi. La sua esperienza da viceministro ai Trasporti è finita tra le polemiche ma mettere il figlio Piero nel comitato per il Sì poteva servire a lanciarlo verso il prossimo parlamento e una poltrona di governo. La dichiarazione di ieri apre la porta a un eventuale riposizionamento se dovessero cambiare gli equilibri anche se la sua fama di vincente esce ridimensionata. Così come il suo stile di governo: a Salerno il simbolo del Pd non c’è mai stato, l’elettorato si identifica con De Luca e la sua lista civica, da governatore ha disertato tutte le iniziative targate Pd per spostare l’asse dei rapporti su di sé, soprattutto con Roma.

Il partito però è tornato utile quando si dovevano riempire i teatri per le iniziative referendarie e presentare l’emendamento (voluto da Palazzo Chigi) che consentirà a De Luca di fare il commissario alla Sanità regionale. Un partito costretto a chiudere le sedi storiche ma che ha dovuto accogliere i consulenti superpagati del comitato BastaUnSì, a cominciare dall’assistente di Jim Messina arrivato a Napoli a fare il corso ai quadri per trasformare la sede regionale in un call center.

Cosa accadrà adesso dipenderà dalla direzione nazionale. L’area vicina a Luca Lotti, con la segretaria regionale Assunta Tartaglione, commenta: «Convocheremo gli organismi territoriali. In Campania hanno inciso il clima sociale e le difficoltà economiche. Il referendum non cancella quanto di buono è stato fatto»: lealtà verso Renzi e De Luca ma basta leader soli al comando. Chiede spazio anche Sinistra riformista (che era per il No) con il consigliere regionale Gianluca Daniele: «Il Pd va rifondato, non può esistere un partito rappresentato solo da ministri, amministratori e mai da cittadini in carne e ossa».