Il gruppo dirigente del Pd si dichiara felicissimo del voto regionale. Ma speriamo che accanto alla lettura ufficiale ve ne sia una riservata e più intelligente. Possibilmente elaborata dopo aver spento la playstation. Anzitutto preoccupa, e molto, che un elettore su due sia rimasto a casa. Ne segue, come ci spiega l’Istituto Cattaneo, che milioni di voti sono svaniti per tutti salvo che per la Lega. La disaffezione colpisce il Pd, ma anche la sinistra di opposizione, che non riesce a intercettare il consenso in uscita sulla proposta renziana. Siamo tutti più deboli. Certo, un po’ di chiarezza si fa. Renzi ha in buona parte costruito la sua fortuna sul risultato delle ultime europee: 40% di voti sul 58% degli aventi diritto.

Dopo un anno e mezzo di governo, è al 25% sul 50%, perdendo due milioni di voti. Facciamo un altro spot, contando solo le teste dei governatori?

Nelle cifre va poi colto il senso politico. Colpisce soprattutto la prematura dipartita del progetto strategico renziano. L’idea di fondo era la mutazione genetica del Pd al fine di cercare aree di consenso nuove rispetto al bacino tradizionale. In sostanza, volgersi al centro, flirtando con i ceti imprenditoriali, rompendo le sintonie con i sindacati, cavalcando le pulsioni umorali dell’antipolitica, impersonando l’uomo forte caro a una parte dell’elettorato moderato. In breve, il partito della nazione con il suo leader. Ma le percentuali ci dicono che la destra ha tenuto, con una golden share in mano all’azionista Lega, e M5S pure. Il Pd non sfonda. Mentre in alcune delle regioni che il Pd si ascrive qualcuno vince, ma non è il presidente-segretario Renzi.

Concorrono al 5 a 2 la Puglia e la Campania, in cui il Pd sfugge al controllo di Renzi e del suo gruppo dirigente. Emiliano ha messo subito in chiaro che l’uomo forte del Pd pugliese è lui, e che vuole un suo modello, magari formato esportazione. Niente a che fare con Renzi, che non a caso non si è molto speso per la vittoria di Emiliano. In Campania, anche le pietre sanno che Renzi non avrebbe voluto De Luca, che ha tentato di lanciare una candidatura alternativa, e che ha infine dovuto arrendersi. De Luca è per Renzi un messaggio di debolezza, non di forza. Anche la sua vittoria non viene dal successo travolgente del Pd – che prende in Campania una percentuale bassa – ma dai consensi personali, con il supporto probabilmente decisivo di un vecchio volpone come De Mita.

Il tutto per finire in groviglio giuridico. Come dice Cantone su La Repubblica, De Luca è sospendibile ma non incandidabile. Quindi può afferrare l’agognata poltrona, ma non mantenerla. Forse, può rimanere seduto giusto il tempo di nominare la giunta e il vicepresidente che lo sostituirà, se Renzi se la prende comoda nell’adottare il decreto che accerta la sospensione, obbligatoria ex lege. Questo ci dicono la legge Severino (d. Lgs. 235/2012, artt. 7 e 8) e lo Statuto della Regione Campania (art. 46). Sarà il festival degli avvocati. E se la condanna per cui oggi De Luca viene sospeso diventasse a legislazione invariata definitiva, dalla sospensione si passerebbe alla decadenza, con scioglimento anticipato del Consiglio e nuove elezioni.

Speriamo che i bisogni della Campania non si riassumano nella necessità di una legge ad personam per dipanare la matassa. In questo contesto, De Luca poteva certo evitare la mossa contro la Bindi. Si mostra arrogante, e contribuisce a un polverone già altissimo, per un regolamento di conti nel Pd. Per di più, c’è molto da discutere su chi abbia sbagliato, e come.

Quindi, meglio togliere Puglia e Campania dal pallottoliere. E che dire dell’Umbria, con il suo testa a testa fino all’ultimo minuto? E del Veneto, in cui nonostante i salamelecchi scambiati tra Renzi e gli imprenditori, la candidata renziana Doc è stata asfaltata? Persino in Toscana la Lega esplode arrivando a consensi fino a ieri impensabili. Della Liguria, si è detto di tutto e di più.

Si avvicina una direzione Pd che speriamo non veda solo processi a presunte streghe, che si chiamino Pastorino o Bindi. Se vuol durare a Palazzo Chigi, Renzi deve assolutamente invertire la rotta nel merito e nel metodo della sua proposta, a partire dalle riforme ed in specie dall’Italicum. Ha fatto il vuoto intorno, per dare l’immagine di uomo forte e deciso. Ha dato ceffoni ai dubbiosi e ai dissenzienti. Ha scommesso sul consenso personale e su una politica fatta di tweet e di battute. Ha rotto sintonie antiche con mondi da sempre vicini al Pd e alla sinistra, in nome del nuovo e di politiche di destra. Ora, scopre di essere solo, con un partito che in vaste aree del paese è in mano ad altri, e non lo aiuta a costruire consenso.

Un partito è fatto anche di continuità e di identità. Renzi ne ha irriso la storia e le antiche parole d’ordine. Ha rottamato con violenza e umiliato, individualmente e collettivamente, il vecchio gruppo dirigente, certo anche per colpa di chi ne faceva parte. Non ha capito che stava rottamando anche il partito di cui avrebbe avuto bisogno. Per ricostruirlo ci vorranno anni, non mesi o settimane. E non basterà a ridurre i tempi una legge – magari anche buona – sui partiti. La domanda è: nel frattempo, cosa accade?

È come se qualcuno avesse rottamato l’auto prima di comprarne una nuova. Ora, non rimane che andare a piedi.