A far data dal 29 luglio 1890, giorno della sua morte, la fama di Vincent Van Gogh cresce di anno in anno.

Nello stesso 1890 Albert Aurier aveva pubblicato su «Mercure de France» Les isolés: Vincent van Gogh, un «articolo inaugurale», come dirà Jacob Baart De La Faille.

Il primo contributo critico sull’opera del pittore, parallelo al Vincent Van Gogh che nel 1891 Emile Bernard pubblica nella collana «Hommes d’aujourd’hui» dell’editore parigino Vanier. Da accostarsi alle note, premesse dallo stesso Bernard, alla pubblicazione di stralci dalle lettere a lui inviate da Van Gogh tra il 1887 e 1890, e di alcune lettere al fratello Theo che appaiono sul «Mercure de France» tra il 1893 e il 1895.

Si deve a Bernard un giudizio (e un’icastica immagine di Vincent) che fissa allora un tratto a lungo ritenuto saliente della sua pittura: «Van Gogh era anzitutto un naturalista, un allievo della scuola di Zola. Invece che intirizzirsi tra le astrazioni, piantava il suo cavalletto dove poteva, in luoghi scomodi, per la strada, nei campi e en plein mistral».

Si può dire che la pubblicazione dell’epistolario, fin dal 1906, quando ne appare a Berlino una raccolta a cura di Margarete Mauthner presso Cassirer (via via accresciuta in varie edizioni e traduzioni nel corso degli anni, e da Cassirer fino al 1928) fa sì che strettamente si congiungano, nella fortuna e nella fama di Van Gogh presso il largo pubblico, l’opera e la vita.

E così tenace fu visto, in lui, il nodo che legava l’arte sua alla sua vita, da rendere esemplare la figura di Vincent per quanti intendano quel nesso indissolubile.

Le opere medesime sono state spesso lette come un diario in pittura, abbinate ai correlativi resoconti scritti rivolti da Vincent al fratello. E nel suo stile, e non solo nella dominante vulgata, si è vista la trasposizione in immagine d’un percepire alterato, d’un eccesso nervoso che i medici non avevano mancato di accertare.

Alla metà degli anni Venti, a meno di quattro decenni dalla morte, l’opera di Vincent è ormai illuminata dalla leggenda della sua vita, quasi reliquia d’un lungo martirio.

Nei mesi di giugno e luglio del 1927, De La Faille cura a Parigi la mostra l’Epoque française de van Gogh presso la Galerie Bernheim Jeune che, nel marzo del 1901, aveva ospitato la prima retrospettiva dell’opera di Van Gogh in Francia.

Nel catalogo scrive: «bisogna giudicare l’artista dalle sue opere, e non dalla sua persona. L’opera di Vincent Van Gogh, manifesta il genio, non la demenza. Ci ha donato la rivelazione di una bellezza sconosciuta».

Certo, ed è a ciascuna singola realizzazione che il critico ha da applicare la sua capacità di giudizio. Una capacità che si appoggia su una molteplice serie di presupposti. Essi vanno ben sceverati e attentamente saggiati affinché non pongano il conoscitore al rischio di fraintendimenti.

L’esposizione Bernheim Jeune segna una data significativa nella storia della recezione dell’opera di Van Gogh. Vi appaiono i primi falsi.

Con la celebrazione della critica, cresce il valore che il mercato attribuisce alle sue tele. Sono così ricercate che tra il 1925 e il 1928 circolano più di trenta dipinti di Van Gogh fino a quell’epoca sconosciuti. Quattro autoritratti, quattro paesaggi con cipressi contorti. E poi «i girasoli, i seminatori in pieno sole, lo zuavo: non mancava niente», scrive nel 1948 Otto Kurz nel suo fondamentale studio su falsi e falsari Fakes.

«Grandi esperti, continua Kurz, ne avevano certificato l’autorità, i collezionisti se li contendevano, e questi trentatre quadri furono debitamente incorporati nel catalogo dell’opera di Van Gogh che fa testo, quello di De La Faille», pubblicato nel 1928.

De La Faille aveva accreditato opere che accentuavano la maniera di Van Gogh, ne enfatizzavano il tratto eccitato fino ad una deformazione parossistica: «Raffrontati ai colpi di pennello agitati e nervosi delle imitazioni, gli originali hanno un’aria calma», osserva Kurz. De La Faille, incapace di apprezzare di Van Gogh la specifica misura, tanto consente alla bellezza sconosciuta che Vincent dona da non registrarne come improprie spurie accentuazioni di veemenza e goffe esagerazioni deformanti.