Irene De Guttry, storica dell’arte, esperta di architettura, arti applicate e decorative del Novecento, qualche anno fa ha stilato per Italia Nostra una guida ai villini di Roma. In tre volumi, «Il villino storico» cataloga gli edifici di valore artistico e culturale da Parioli a Prati, fino a Nomentana, Trieste e Coppedè.

Come ha ricostruito la mappatura dei villini?

Irene De Guttry
Irene De Guttry

Ho battuto quartiere per quartiere, documentandomi nell’Archivio capitolino: per vedere chi aveva progettato, quando e come, studiando anche le eventuali modifiche e superfetazioni fatte via via nel tempo. Mi sono resa conto che ce ne sono tantissimi di questi villini, con due tipologie prevalenti: c’è quello signorile unifamiliare, con un ampio giardino, e poi c’è l’edificio di cooperativa e operaio, destinato ai ferrovieri, ai tranvieri, agli impiegati dei ministeri. Roma si cominciò a espandere a partire dai primi del Novecento, a macchia d’olio: dal lato dei Prati, i quartieri Boncompagni e Ludovisi, a sud in via Latina, e poi il Gianicolo, Monteverde. Sempre si ritrovano le due distinte tipologie: il villino signorile, su due o tre piani, e il palazzo cosiddetto «di affitto», con gli appartamenti, a filo strada, anche di sei piani.

Tanti villini o palazzi storici sono già stati modificati, o abbattuti, negli anni passati.

Certamente, infatti possiamo dire che purtroppo non esiste quasi più un quartiere del tutto omogeneo. Innesti e manomissioni sono stati fatti a macchia di leopardo, in tutte le zone della città: pensiamo ad esempio a Monteverde vecchio, su via Poerio e via Dandolo abbiamo palazzi moderni accanto a bellissimi villini. Ma le modifiche venivano fatte anche poco dopo la costruzione. Il quadrante di piazza Caprera, quartiere Trieste, è stato interamente progettato nel 1906: aveva una fisionomia estremamente attraente perché era come un villaggio fatto di stradine e villini con giardino. Già negli anni Venti molti proprietari innalzarono un piano sui due delle case originarie, ma in genere rispettando un’armonia di stile. Il problema è arrivato negli anni Sessanta e Settanta, quando tanti villini sono stati abbattuti per costruire palazzoni di sei o otto piani.

È di valore storico culturale, e sarebbe da tutelare, anche l’architettura popolare che vediamo ad esempio a Garbatella, o nel quartiere Appio.

Garbatella era una zona verde, del tutto staccata dalla città: vi furono trasferiti gli abitanti dei quartieri sventrati intorno al Vittoriano. Poi, nel tempo, quello che allora era un villaggio si è saldato al resto di Roma: anche lì, ovviamente, c’è tanto da tutelare. Ma penso anche a com’era Montesacro: c’erano molte costruzioni per gli impiegati, edificate negli anni Venti, ma quasi tutte distrutte per fare spazio ai palazzi negli anni Sessanta. Così oggi la Città Giardino Aniene è quasi scomparsa, rispetto alla sua forma originaria.

Quindi il vincolo che il ministero si appresta a porre sarebbe da generalizzare?

Non esiste un quartiere da privilegiare, tutti contengono edifici di valore da tutelare e ritengo importante il vincolo che vuole porre il ministero dei Beni culturali. Non solo per conservare una memoria storica, ma anche per preservare la bellezza della città. Non siamo una metropoli americana, abbiamo un patrimonio fatto di architettura, di arte, cerchiamo di salvare quanto è sopravvissuto.

Ma vale la pena preservare anche edifici non di alto valore artistico o già rimaneggiati?

Intendiamoci, non è che tutto quello che è stato fatto nel passato abbia per forza un alto valore storico culturale. Il problema, però, è il tessuto in cui l’edificio è immerso: se è un po’ più modesto, ma comunque si sposa ad altre costruzioni più belle, faccio un danno demolendolo, a maggior ragione se poi autorizzo un palazzone in cemento.