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De Groux, le carte disfattiste del maestro della dismisura

De Groux, le carte disfattiste del maestro della dismisuraHenry de Groux, "Nuage toxique", 1914 ca, collezione privata

Le immagini della guerra: Henry de Groux Nel pittore bruxellois l’esperienza ottica del ’14-’18 sgretola la corazza simbolista: emerge un realismo fantastico e urticante, tutto nel segno di Goya

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 21 agosto 2022
Henry de Groux in un foto-ritratto di Dornac

Artista virulento e arrovellato, anti-accademico e altrettanto anti-moderno, intimo dell’«Ezechiele astioso», come l’ha detto qualcuno, che fu Leon Bloy, ma ammiratore incondizionato del Zola di J’Accuse…!, Henry de Groux trovò nelle trincee della Grande guerra il materiale del suo apogeo. Allenatosi alla furia pittorica sopra l’immaginario delle battaglie napoleoniche e dell’Inferno dantesco – temi ai quali aveva dedicato cicli rispettivi tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Nove –, lo stravagante bruxellois, classe 1866, nell’estate del 1914, in vista di raggiungere la famiglia a Vernègues, Provenza, si ritrova a Parigi, come sempre tormentato dai fantasmi e dai debiti, giusto in tempo per la dichiarazione di guerra: 3 agosto. Decide di restare: l’idea è avventurarsi sui campi di battaglia per cogliere al vivo, documentare, dare rilievo plastico.
Respingendo la formula di Rémy de Gourmont, a lui riferita, «peintre de la Violence», de Groux aveva chiarito, nel 1901, in una pagina del fluviale e vorticoso Journal, che nella sua arte la violenza era «forse un effetto», non mai «uno scopo»: «la mia principale ricerca (…) è stata il movimento». Nel presentare, 1916, la sconvolgente raccolta grafica sulla guerra Le Visage de la Victoire – per fonti, i suoi schizzi ma anche foto-press («L’Illustration», «Le Miroir», «L’Excelsior») –, egli sente di potere e volere testimoniare, con riferimento al tedesco Schopenhauer, «che ciascuno è il diavolo del suo vicino», una condizione umana strutturale; ma non perde di vista il proprium, il mezzo tecnico (acquaforte e litografia), consustanziale a tale sconsolatezza.
Nel 1889 il chiassoso e allucinato Christ aux outrages aveva sancito la sua posizione di «maître de la démesure», e colpito come uno schiaffo il cattolico estremo Bloy, che gli dedicò uno scritto nel 1892, in occasione del suo trasporto da Bruxelles a Parigi: la tela si proponeva sì come figura granguignolesca e a suo modo grandiosa della Caduta, ma nondimeno, anzi di più, quale oltraggioso manifesto dell’inattuale, con il recupero tutto polemico di Rubens contro i post-impressionisti. Seguirà – perché de Groux si rifiuta di esporre accanto a van Gogh – il celebre alterco con Signac e Toulouse, e la conseguente, clamorosa espulsione dal gruppo dei novatori belgi, i Vingt.
L’episodio descrive bene la personalità provocatoria di de Groux, la sua compulsione a farsi spazio sulla scena pubblica. Il paria che vuole esserci è oltranzista di necessità, e anche in questo senso de Groux deve aver trovato sponda nel carattere abnorme di Bloy. Ma in che modo la sua estroflessione psichica sentì la guerra? Non la guerra, per lui già mitica, di Waterloo, del ponte di Arcole, della ritirata di Russia, in cui aveva tradotto l’energia napoleonica in frenesia lampeggiante a tinte acide, ma la guerra presente, che giungeva a squarciare il suo tran-tran di disperazioni? La corazza simbolista si sgretola in favore di un realismo fantastico, risentito e urticante, che recupera nel significato più pieno la lezione di Goya.
L’idea catartica della guerra, di radice nicciana, che negli anni novanta aveva condiviso con numerosi artisti e intellettuali della sua generazione; la «bellezza» dei campi di battaglia, «l’appello all’energia e alla suprema virtù degli esseri, quella del sacrificio, della forza e del coraggio»… tutto lascia il campo, con l’esperienza ottica del primo conflitto moderno, alla constatazione agghiacciata di un’«abiezione», di una «colossale assurdità di macchina che gira a vuoto»: sono parole dell’introduzione di de Groux a Le Visage che la censura lo costrinse a eliminare.
Egli è diventato pacifista integrale, e da questa postazione, chiaroveggente, arriva a vedere nella Grande Guerra «il preludio, qualcosa come il “primo dolore” di un parto ancora più mostruoso…» (lettera, 26 dicembre 1918). Si rifiuta, incredibile!, di demonizzare i tedeschi, di cui difende a spada tratta la grande cultura, soprattutto musicale: «Per che cosa, per chi (…), l’Inno alla Gioia? Per chi, per che cosa, Parsifal? (…) E allora, per che cosa la vita?… Perché noi tutti?… Quale dolore infinito!!!» (idem). Non la vittoria della civiltà francese sulle «orde tedesche», come le vide lo stesso Bloy, ma – giungendo a fiancheggiare, lui simbolista anti-moderno, il pacifismo nichilista di Dada – un mondo indistinguibile «di devastati, di malati, di fatiscenti, di squilibrati»… Posizione rischiosissima, su cui gli studiosi si sono interrogati.
Nell’inverno 1916, alla galerie d’Alignan, Parigi, rue La Boétie, de Groux presentò una corposa sintesi del suo lancinante lavoro dalle (o sulle) trincee. 320 opere: trenta tele, circa venti pastelli, più di 230 disegni, una parte lumeggiati a acquerello o a pastello, sedici litografie e venti acqueforti da Le Visage de la Victoire che era apparso, edizioni La Guerre, nella primavera dello stesso anno, con, sul frontespizio, per dire la Vittoria!, una sconsolata testa di Medusa occhi serrati verso il basso, che, in un primo tempo, doveva persino avere le fattezze scheletriche della Morte. Come fu possibile per de Groux, in pieno conflitto, rendere pubblico il suo pensiero radicale e «disfattista»? Un unicum, forse.
Nel 1996 Philippe Dagen diede alle stampe il suo libro – fondamentale – sugli artisti dinanzi al ’14-’18. Il titolo, Le silence des peintres, condensa la tesi: l’abnormità dell’evento trovò impreparati i pittori moderni, che solo in rari casi riuscirono a competere con la fotografia e il cinema, a trovare il corrispondente plastico, anche laddove, di frequente, si trovassero in prima linea. A parte il servizio di camouflage, arte applicata alle esigenze tattiche, in cui furono impiegati diversi fra i giovani maestri dell’avanguardia, la casistica prodotta e analizzata da Dagen indica un ritrarsi più o meno spaventato dinanzi alla materia viva dell’orrore.
L’assunto di Dagen risentiva però, è stato notato, di una stagione degli studî segnata dalla discriminante modernista, che aveva espulso dal quadro un numero considerevole di manifestazioni altre, il cui progressivo riemergere ha modificato il canone e, nel caso della Grande Guerra, graduato diversamente i termini del problema. Esempio eclatante è il silenziamento totale, nel Silence des peintres, del nome di de Groux. Non è così sorprendente: la sua figura era stata dissepolta solo nel 1992, quattro anni prima del libro di Dagen, da un giovane specialista di simbolismo francese (poi divenuto maestro di questi studî), Rodolphe Rapetti, con un illuminante saggio sul Christ aux outrages.
Oggi, quantunque de Groux resti sconosciuto ai più, la riscoperta critica è compiuta. Siamo bene informati delle condizioni logistiche che resero possibile all’artista spingersi, da civile, sul terreno, fino alle prime linee: un privilegio eccezionale ma non esclusivo (altro caso, Théophile Steinlen). In un primo tempo, subito dopo la battaglia della Marna, egli assiste incredulo alle devastazioni lasciate dai tedeschi, che erano rinculati stabilendosi, verso il 15 settembre 1914, sull’Aisne. In seguito le buone relazioni con il ministro Albert Sarraut gli consentono il supporto militare per visitare Noisy-le-Sec – dov’è offeso dalla vista dei feriti, delle reclute, dei prigionieri tedeschi – e poi raggiungere gli avamposti. Nel febbraio 1915 è a fianco dello stesso Sarraut, in automobile, nella zona dei combattimenti. Ma nell’ottobre dello stesso anno, con la sostituzione del ministro, de Groux viene a perdere la libertà di movimento nei settori proibiti.
Nelle foto d’epoca appare dandìstico, i capelli all’indietro scarmigliati, l’arco della bocca all’ingiù, amaro, l’occhio bovino, esaltato, in cui si riflette il turbamento universale: e così lo immaginiamo stenografare sul fronte, come in sogno, le figure del disastro. Il deciso prevalere, per ovvie ragioni, del disegno a carboncino, tecnica a lui quasi nuova, gli dà modo, con lo scavo risentito delle ombre, di esulcerare la realtà. Nel rappresentare a volte la guerra quale fosca carnevalata, de Groux sembra richiamarsi al connazionale James Ensor, la cui Entrée du Christ a Bruxelles, 1888, era stata di lievito per il Christ aux outrages. L’aspra ironia di Ensor non è condivisa dal ‘predicatore’ de Groux, ma ensoriana è la sua ossessione per le maschere a gas – tremenda novità -, che spossessano i soldati, fantocci suini. Mentre in quel grafico «diamante nero» che è la Victoire, l’acido della morsura ‘invade’ dove agglutina i corpi, in un carnaio che è un grido, il pensiero apocalittico di de Groux.

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