Un nuovo album live, l’ennesimo di una discografia che potremmo definire parallela per Francesco De Gregori. Uscito venerdì scorso per i tipi della Sony, Sotto il vulcano è un doppio cd, registrato il 27 agosto durante il concerto a Taormina. Ci sono i brani che non possono mancare (La donna cannone, Rimmel, Generale) e qualche rilettura del repertorio dylaniano ’tradotta’ con sapienza per il suo ultimo lavoro da studio. L’incontro in un ristorante capitolino, in un accavallarsi di domande sull’attualità, alle quali De Gregori risponde portando con sé la ritrosia che lo ha sempre contraddistinto.

Il mondo gira, la storia va avanti e lui ne fa parte a modo suo: «Mi posso prendere il lusso di non rispondere, forse perché su certe questioni non bastano due minuti improvvisati, magari servirebbe un saggio perché in tanti hanno sempre qualcosa da dire, perché si parla sempre, ovunque, di tutto, troppo, non parlo di Trump, non di politica non di storia». Eppure il titolo scelto per il disco Sotto il vulcano potrebbe rappresentare benissimo il periodo storico che stiamo vivendo: «Il vulcano rappresenta un’immagine bella ma inquietante. Sta lì fermo ma tutti sanno che prima o poi può svegliarsi. È un titolo ’ rubato’ al romanzo di Malcolm Lowry».

Un album dal vivo per riascoltare se stessi, per rivedersi meglio: «Un live fa sentire al pubblico cosa succede ai concerti. Ho la necessità di pubblicare me stesso. È la foto mossa di uno che si guarda allo specchio, uno specchio in movimento, che non rimane mai uguale». Le nuove generazioni di cantautori lo citano o si ispirano chiaramente al suo stile, come Calcutta o Brunori Sas: «Non lo sapevo ma non è peccato». D’altronde funziona così, da sempre ci sono i maestri e ci sono gli allievi: «Duchamp ha messo i baffi alla Gioconda, non è un delitto prendere qualcosa da me, io ho preso tanto da Dylan, se la nuova generazione mi cita non può farmi che piacere. Se io non avessi avuto questi maestri non sarei qui con voi».

La scelta di inserire nella scaletta dei concerti 4 marzo 1943: «Lucio cantava l’altra versione. Io ho scelto quella con la gente del porto. La trovo più delicata, più dolce e dove più forte sento il senso della maternità». È che il nostro Paese è abituato a un dolore urlato, amplificato dalla tv. Scegliere una canzone, quella canzone, forse è il miglior modo per tenere viva la memoria di un artista come Dalla: «Il giorno dopo dovevamo suonare a Taormina, così l’abbiamo messa nella scaletta. Non ho pensato a una celebrazione e neppure a un rito o a un omaggio pubblico. Niente del genere. Solo a questa grande canzone, a come la cantava Lucio e al tempo che è passato senza toccarla».

I live sono una costante, ma un album di inediti manca ormai da cinque anni: «Quando mi verranno in mente cose che non ho ancora detto ci lavorerò su, c’è sempre questa paura di aver detto tutto. Non vorrei ripetermi ». Bisogna anche fermarsi dopo tanto cammino, almeno per quest’ anno: «Ho voglia di non fare niente, che non vuol dire guardare fuori dalla finestra come un ebete, che poi non fare niente vuol dire fare sempre qualcosa».