Sono in corso le indagini per fare luce sulla morte del dottor Giuseppe De Donno, ex-primario del reparto di Pneumologia all’ospedale Carlo Poma di Mantova. Da circa due mesi, il professore aveva lasciato l’ospedale per diventare medico di base nel mantovano.

In molti avevano spiegato la scelta con la delusione per il mancato riconoscimento della terapia a base di «plasma iperimmune», da lui messa a punto nell’ospedale nelle prime fasi della pandemia. E ora i sostenitori delle tesi di De Donno, popolarissime sui social network, a quella delusione collegano anche la sua morte. Secondo le prime indiscrezioni circolate sul decesso, il medico si sarebbe impiccato. La terapia «De Donno» consiste in trasfusioni di plasma prelevato da persone guarite dal Covid-19 e dunque ricco di anticorpi. Il medico l’aveva sperimentata all’ospedale di Mantova in collaborazione con il San Matteo di Pavia. Secondo uno studio realizzato da De Donno tra aprile e maggio 2020, su 46 pazienti gravi trattati con il plasma iperimmune ne erano morti solo 3, invece dei 6-7 previsti sulla base delle statistiche disponibili. Questi risultati iniziali avevano creato molte attese e raccolto notevole attenzione intorno alla figura di De Donno affinché l’Agenzia del Farmaco (Aifa) approvasse ufficialmente la cura a base di plasma.

Purtroppo, uno studio più ampio denominato «Tsunami» e promosso da Istituto Superiore di Sanità, Aifa, dall’ospedale San Matteo e dall’ospedale di Pisa aveva smentito i risultati preliminari di De Donno: su quasi 500 pazienti, il plasma iperimmune non aveva mostrato benefici in termini di mortalità. Qualche risultato promettente era stato osservato sui casi di Covid meno gravi, e negli Usa e in India gli studi proseguono. Ma l’esito negativo di «Tsunami» ha fatto accantonare in Italia la terapia a base di plasma iperimmune. Per quella decisione, oggi molti fautori della cura «De Donno» parlano di un medico «assassinato dallo Stato» e avanzano sospetti sulle reali circostanze della sua morte. La vicenda di De Donno ne ricorda molte altre emerse nel periodo pandemico, durante il quale diverse cure sperimentali hanno raccolto un grande sostegno popolare via Facebook fino a scontrarsi con le autorità scientifiche: è avvenuto anche per l’idrossiclorochina, per gli anticorpi monoclonali e per tanti altri farmaci.

La difficoltà di valutare tali terapie è oggettiva. Il Covid-19 ha una mortalità relativamente bassa (circa l’1% dei contagiati) e richiede di osservare un campione di malati molto più ampio di qualche decina o centinaia per stabilire l’efficacia di un farmaco. Pochi decessi in più o in meno, infatti, potrebbero dipendere solo dalla casualità. Ma raccogliere più pazienti in ambiente ospedaliero non è sempre possibile e necessita di tempi incompatibili con l’emergenza di una pandemia. Il trial «Solidarity» dell’Oms, progettato per trovare farmaci efficaci contro il Covid, ha coinvolto centinaia di Paesi e ospedali di tutto il mondo, un’impresa impensabile per un singolo governo. E in questa incertezza statistica possono celarsi sia le cure promettenti ma trascurate da una comunità scientifica disattenta o conservatrice che le terapie inefficaci promosse dagli scienziati-guru.