Il 10 giugno 1972 Gino De Dominicis e il suo assistente Simone Carella vengono querelati alla Procura della Repubblica per sospetto reato di sottrazione di persona incapace. L’accusa, da cui saranno assolti un anno dopo, è dovuta al fatto che l’artista aveva invitato un ragazzo affetto dalla sindrome di Down di nome Paolo Rosa a prendere parte all’opera Seconda soluzione d’immortalità: l’universo è immobile, presentata due giorni prima alla 36ma Biennale di Venezia. L’opera era composta da Paolo Rosa, seduto su una sedia in un angolo della sala messa a disposizione dell’artista, e da un quadrato bianco, una palla e una pietra collocati per terra davanti a lui, tre lavori, questi ultimi, già esposti nel 1969 alla Galleria L’Attico di Roma. All’apertura della mostra le proteste per la presenza di Rosa sono tali che l’artista è costretto ad allontanare il ragazzo. Subito dopo decide di chiudere l’intera sala. Senza Paolo Rosa la Seconda soluzione d’immortalità aveva infatti perso il suo elemento-cardine.
All’analisi del significato di quest’opera è dedicato l’ultimo libro di Gabriele Guercio, L’arte non evolve L’universo immobile di Gino De Dominicis (Johan & Levi Editore, pp. 128, euro 15,00). Secondo lo studioso è questa infatti la prima opera in cui De Dominicis riesce a dare compiutamente forma all’idea che ha ispirato tutto il suo lavoro, quella dell’esistenza di un legame tra creazione artistica e immortalità.
In occasione della presentazione alla Biennale la Seconda soluzione d’immortalità è liquidata dalla stampa come semplice provocazione del comune senso morale e paragonata all’esposizione dello «sterco umano» di Piero Manzoni, avvenuta l’anno prima alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma e costata alla direttrice Palma Bucarelli una seconda interrogazione parlamentare dopo quella dovuta all’acquisto di un Sacco di Alberto Burri. La critica più attenta, nella stessa occasione, sottolinea come la presenza di Paolo Rosa generi un coraggioso sconfinamento dell’opera dal piano dell’arte a quello della vita, limitandosi in sostanza a trasferire i motivi dello scandalo dal piano morale a quello estetico. In realtà la scelta di coinvolgere un «mongoloide» o «subnormale» (appellativi con cui i quotidiani dell’epoca si riferiscono a Rosa) non risponde solo al tentativo di far dialogare le due categorie di «opera» e «comportamento», che davano il titolo alla sezione della mostra a cui l’artista era invitato. L’intenzione di De Dominicis, spiega Guercio, è quella più complessa di inserire all’interno dell’opera un punto di vista opposto rispetto a quello dello spettatore e, al contempo, un punto di vista «ideale» sulle tre opere che si trovano di fronte a lui. Paolo Rosa, in quanto persona che vede e percepisce in maniera altra rispetto alla norma, rappresenta un fattore di «disadattamento» per l’osservatore. È un elemento in cui immediatamente ci riconosciamo come esseri umani e in cui tuttavia non riusciamo del tutto a immedesimarci per la sua natura diversa. Il disagio che ci provoca la vista di Rosa è lo stesso che abbiamo di fronte a ogni opera d’arte: li percepiamo entrambi come entità partecipi della nostra realtà, ma al tempo stesso come parti di un «mondo che non ci contiene».
All’opera d’arte «compete una realtà diversa da quella delle cose», ha scritto Cesare Brandi in un importante saggio del 1966 ricordato da Guercio. Nel momento esatto in cui entra a far parte del mondo, infatti, l’opera d’arte si sottrae alla sequenza di passato, presente e futuro che ordina la vita degli individui e delle cose. L’opera d’arte, spiega sempre Brandi, racchiude in sé una storicità «duplice, nella sua nascita e nel suo farsi presente ogni volta a una coscienza». È in questo suo peculiare proporsi come una sorta di «pausa spazio-temporale», scrive Guercio, in cui l’essere è connesso al non essere, che De Dominicis riconosce l’unico mezzo utile a raggiungere l’immortalità.
Quando nel 1969, con il Manifesto mortuario, annuncia il suo decesso, l’artista rappresenta quindi la prima necessaria condizione per farsi immortale: la morte dell’autore. Una morte iniziatica, indispensabile per rendere possibile la rinascita dell’artista, entità incarnata nell’eterno presente dell’opera d’arte.
Questa concezione della morte si avvicina molto a quella delle culture arcaiche nelle quali, ha spiegato Mircea Eliade, l’uomo riusce a percepirsi «reale» solo nel momento in cui cessa di esistere. Un morte che porta alla piena presa di coscienza di sé ed è quindi lontana dall’idea di «morte dell’autore», e dalla conseguente nascita del lettore, teorizzata solo qualche anno prima in ambito letterario da Roland Barthes. Le opere di De Dominicis, infatti, non ambiscono alla cooperazione del pubblico, al contrario, spiega Guercio usando un suggestivo parallelismo, la loro natura può essere paragonata a quella degli «archeofossili», materie la cui esistenza non ha testimoni umani e la cui presenza oggettiva si dà quindi prima che la soggettività di uno sguardo ne giustifichi l’esistenza. Sono realtà che vivono in una dimensione ancestrale, la stessa da cui sembrano provenire le figure che negli anni ottanta popolano i quadri dell’artista, come quelle di Urvasi e Gilgamesh, «forme di vita – scrive Guercio – estranee alla progressione di un tempo, unico e inclusivo, che evolverebbe dalla preistoria al presente, al domani».
L’arte quindi non evolve, secondo De Dominicis, perché è in grado di dare forma a un universo non sottomesso al lineare scorrere del tempo. Allo stesso modo il suo contenuto non è assoggettato allo svolgersi del discorso logico, per il quale ogni cosa deriva e si spiega in relazione alla precedente, in un susseguirsi continuo di cause ed effetti. Come il procedere dello sguardo di Paolo Rosa, il senso dell’opera d’arte si dà per balzi, per fratture e deviazioni, per illuminazioni e abbagli. È così che l’opera d’arte ci offre una conoscenza diversa della realtà, più ricca di possibilità rispetto a quella elaborata dal discorso scientifico, o da quello religioso. Come dimostrano le opere disposte di fronte a Paolo Rosa, attraverso la finzione di un’immagine è infatti possibile confutare le normali leggi della fisica e percepire l’istante esatto della Palla di gomma (caduta da 2 metri) nell’attimo immediatamente precedente il rimbalzo (1968-’69) e l’ingombro tridimensionale di un Cubo invisibile (1967), o addirittura scoprirci fiduciosi a fissare un sasso in Attesa di un casuale movimento molecolare generale in una sola direzione, tale da generare un movimento spontaneo della pietra (1969).
«Tutte le cose e i fenomeni esistenti che sono stati visti dall’uomo – ha scritto Giorgio De Chirico – si sono impressi nel suo spirito sotto forma d’immagini, prima che la parola fosse stata trovata per designarli». È la stessa fiducia nella forza rivelatrice delle immagini, in quello che Rosalind Krauss ha chiamato il «puramente visivo», in grado di svelare allo spettatore la sua forza in un battito di ciglia, che permette di comprendere appieno in che modo la ricerca di De Dominicis, dopo anni di assiomatiche asserzioni dell’arte concettuale, possa essere apparsa esemplare per le generazioni successive di artisti. E come la sua idea di «atemporalità» dell’opera, scrive bene Guercio, sia servita a reclamare spazio per quella «libertà dell’‘anacronismo’» che a partire dagli anni ottanta ha contribuito a scardinare la concezione della storia dell’arte come ininterrotta evoluzione del linguaggio