Il Castello di Rivoli si appresta a diventare il maggiore centro espositivo delle opere collezionate dal genovese Francesco Federico Cerruti. A gennaio 2019, infatti, verrà inaugurato un nuovo polo museale dedicato all’intera Collezione Cerruti, quasi trecento tra sculture e dipinti, dai fondi oro medievali a Warhol. Ma un assaggio di quello che potrà offrire l’area espositiva ci viene proposto già oggi con la mostra Giorgio de Chirico Capolavori dalla Collezione di Francesco Federico Cerruti (a cura di Carolyn Christov-Bakargiev e Marcella Beccaria, fino al 27 maggio). Si tratta di un nucleo di dipinti posto in dialogo con alcune opere appartenenti alla collezione permanente del Castello di Rivoli, al primo piano dell’antica residenza sabauda. In tutto, otto opere prodotte dall’artista di Volos nel decennio 1917-1927.
La prima tela che incontriamo è Muse metafisiche (1918), allestita in relazione con Casa di Lucrezio (1981) di Giulio Paolini. Il piccolo dipinto ci introduce direttamente a uno dei temi fondamentali del percorso espositivo, quello del doppio e dell’inconscio. In primo piano, vediamo una testa di manichino colorata e senza volto, ma con al centro un elemento geometrico che rimanda alla matematica e alla goniometria. Subito dietro, leggermente inclinata, ne appare una seconda, del tutto bianca e assente, come a trarre fuori dalla razionalità cosciente dell’uomo una vita segreta che vuole sottrarsi all’orizzonte della coscienza.
Lo stesso leitmotiv estetico-concettuale ritorna ne Il Trovatore del 1922, una delle maggiori opere dell’esposizione. Il soggetto è nuovamente uno dei classici manichini utilizzati da de Chirico, ma questa volta ci troviamo davanti a una figura intera, possente, che occupa l’intero panorama del quadro. E di nuovo la postura e le fattezze del soggetto ci conducono in territori psicoanalitici. La testa, infatti, è del tutto bianca, con un viso senza occhi né bocca né naso. Ad attraversarlo, è unicamente un sottile filo nero, intrecciato al centro del volto. Secondo gli stilemi della mitologia antica, una rappresentazione visiva della cecità, come a indicare una via d’ingresso al mondo e alla realtà che non passi dai sensi, ma da un superiore livello metafisico della coscienza e della spiritualità umani.
A seguire, la sospensione metafisica di de Chirico fuoriesce dalla figura umana e si espande all’intera composizione pittorica con Il saluto degli Argonauti partenti (1920). Quasi un’istantanea limpida e purissima di un piccolo porticciolo di mare, dove sullo sfondo si intravede un’imbarcazione pronta a prendere il largo. Lo stile si rifà a modi e linguaggi classico-rinascimentali, con la rappresentazione simbolica di elementi tipici dell’antica Grecia e un’atmosfera evocativa che rimanda direttamente ai racconti della mitologia ellenica. In questo caso, la cifra metafisica di de Chirico non risiede tanto nell’interiorità e nell’ambiguità dell’inconscio umano, quanto nella capacità che hanno il mito e il racconto di rivelare un significato che attraverso il discorso razionale non potrebbe venire alla luce. Quasi un omaggio alla forza che le metafore e la letteratura hanno quando si tratta di rivelare qualcosa che può essere detto solo per vie indirette e tutt’altro che logico-scientifiche.
Nella sala successiva, segue poi l’Autoritratto con la propria ombra (ca. 1920). Come in Muse metafisiche, il maestro greco ritrae anche ciò che gli occhi non possono vedere. Al centro del quadro, troviamo la realtà materiale, tangibile, ovvero il volto di de Chirico mentre osserva il visitatore e sostiene con una mano un libro. Subito dietro, appare invece lo stesso de Chirico privato di ogni colore, raffigurato di bianco mentre indica un paesaggio urbano che sbuca dal fondo della tela. Il riferimento è a quella linea sottile che separa mondo interiore ed esteriore, orizzonte dell’uomo e orizzonte della natura, in un gioco di scambi e riflessi che i curatori accostano all’Architettura dello specchio (1990) di Pistoletto, altra opera-simbolo riguardo al tema della mimesi e del doppio.
La mostra prosegue poi con alcuni dipinti dedicati ad altri pilastri della prospettiva metafisica di de Chirico. In particolare, Interno metafisico (1917) e Interno metafisico (con faro), del 1918, sfruttano la tecnica del «quadro nel quadro» per offrire una meta-riflessione sulla disciplina pittorica e sulla funzione mimetica dell’arte. In entrambi i casi, troviamo una serie di tele ammassate una sull’altra, ognuna raffigurante soggetti diversi come un faro a picco sul mare, dei dolci ferraresi, alcuni elementi geometrici. Qui de Chirico ci ricorda il rapporto per niente pacifico tra la pittura e la realtà, dove in gioco non è solo la capacità della prima di rappresentare il mondo, ma anche e soprattutto l’intenzionalità che si nasconde in ogni gesto artistico. Un gesto mai neutrale e asettico, anzi sempre orientato a dare una lettura personale e selettiva dell’oggetto rappresentato.
E infine il suggestivo Due cavalli del 1927, dove due esemplari equini si intrecciano come a fondersi l’uno nell’altro, animati da una forza cinetica del tutto antitetica rispetto al cavallo appeso da Cattelan per il suo Novecento, ospitato nella stessa sala. Il sigillo a un confronto ben riuscito fra le opere contemporanee del Castello di Rivoli e quelle di de Chirico, che ancora oggi riesce a interrogare da lontano le voci dell’estetica e dell’arte odierne.