A pochi giorni dalla tentata strage razzista di Macerata, l’appello lanciato da un gruppo di studiose e studiosi delle destre che operano negli atenei di tutta Europa, è andato a buon fine. La Fondazione Feltrinelli ha deciso di annullare l’incontro con Alain de Benoist, inizialmente programmato a Milano nell’ambito di What is Left/What is Right.
Il principale animatore, nonché uno dei fondatori, della cosiddetta Nouvelle Droite, non sarà, almeno per questa volta, ospite del nostro paese, dopo aver partecipato nel corso degli ultimi decenni a una lunga serie di incontri organizzati dal circuito della destra di ispirazione neofascista o dagli ambienti della Lega, ed essere consultato abitualmente, specie sui temi relativi all’immigrazione, dalle testate legate al centrodestra o da trasmissioni televisive a vocazione patriottico-populista.

PROPRIO IL FATTO che l’invito che era stato rivolto a de Benoist (a ragione definito nel testo redatto da storiche e storici come l’«ideologo dei movimenti neofascisti pan-europei, oltre che teorico di una forma di razzismo culturalista non limitato all’area neofascista»), sia caduto per una sorta di sinistra coincidenza nei giorni dell’atto terroristico compiuto nella città delle Marche da un estremista nero approdato nelle fila leghiste, solo l’ennesimo episodio di una lunga serie di atti di barbarie spicciola, invita però a riflettere sulla reale portata di quella nuova cultura «identitaria» di cui il saggista francese è da decenni uno dei protagonisti indiscussi.
Misurarsi con le idee della Nouvelle Droite significa fare i conti con il potente ritorno delle tesi che postulano, con diversi accenti, l’ineguaglianza degli esseri umani, anche nella società contemporanea. Il tutto attraverso una progressione polemica e argomentiva che dall’irruzione sul terreno della cultura delle differenze, per mascherare la genesi del nuovo razzismo «culturalista» nella stagione del ritorno delle piccole patrie produttive e identitarie intorno alla metà degli anni ’90, si sta traducendo, in un presente dominato dalla crisi sociale e dall’annuncio della «decadenza della civiltà europea», in quello che si può con qualche semplificazione riassumere come il corollario ideologico di una preferenza nazionale declinata però in chiave continentale.

AUTENTICA BENZINA per i fuochi razzisti che si vanno accendendo in tutta Europa. Ma anche potente strumento di riconquista culturale a vocazione di massa per una «destra plurale» che non mostra più complessi nell’includere tra le proprie schiere i fautori di una difesa della razza bianca dalla minaccia migratoria.
Apparsa in controtendenza rispetto ai movimenti del Maggio francese, a partire da un gruppo di studenti neofascisti che si erano formati sulle opere di Julius Evola e sulla sua concezione di guerra alla modernità in nome della razza – tra loro, accanto a de Benoist, anche l’ex Oas Dominique Venner morto suicida nel 2013 a Notre Dame per denunciare l’imbastardimento della Francia e la sua fine annunciata grazie al «Mariage pour tous» -, il circuito della Nouvelle Droite, che troverà epigoni e seguaci dapprima in tutta Europa, Russia compresa e, come emerso anche negli ambienti della Alt-Right, oltre oceano, ha definito fin dai primi anni Settanta un corpus dottrinario che afferma l’«estrema valorizzazione delle specificità culturali e identitarie come chiave per scardinare l’universalismo di matrice democratica. Un elogio delle «differenze», da cui la definizione di «differenzialismo» come linea-guida per tutta quest’area, che con la scusa di mettere in guardia dal rischio di un’omologazione culturale in salsa americana, arriva a sostenere l’impossibilità della convivenza tra «culture» in quella che appare come un’eco inquietante dell’antica denuncia della contaminazione razziale.

ANALOGAMENTE è «alla concezione del mondo egualitaria», oltre che all’«americanizzazione del pianeta», che viene fatta risalire la genesi dei processi di globalizzazione economica e culturale, ribattezzati con un neologismo poi diventato di senso comune tra le estreme destre internazionali, come «mondialismo». Termine che anche in questo caso sembra indicare una certa analogia con il cosmopolitismo denunciato storicamente dai fascisti di ogni sorta e che rimanda a letture complottiste e antisemite ben note.
Così, contro l’edificazione di quella che definisce come un’unica «civiltà mondiale», lo stesso de Benoist auspica di «veder vivere in base al proprio ritmo dei popoli differenti, di un diverso colore della pelle, di un’altra cultura, di un’altra mentalità – e che sono fieri della loro differenza». E ritiene «che questa differenza rappresenti la ricchezza del mondo e che l’egualitarismo la stia uccidendo».
Una posizione che declinata nelle contemporanee società occidentali, a partire da quella francese che si è costruita sull’immigrazione, sembra suggerire forme esplicite di apartheid culturale se non, peggio, di rigetto del meticciato e dell’incontro in nome della difesa di identità pure e irriducibili. Ciò che nell’accelerazione dei conflitti propria della stagione della crisi, si sta drammaticamente trasformando in un annuncio di guerra razziale.