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De Angelis e l’incanto di Lucrezio, intimo ma distante

Traduzioni d'autore Lessico guerriero e amoroso, angoscia... Milo De Angelis corona la lunga fedeltà al De rerum natura con la versione integrale per lo «Specchio» Mondadori: senza mai tradirne la «lontananza»

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 24 luglio 2022

«Leggere Lucrezio equivale spesso a guardare il mondo con occhi limpidi e spazzati sorprendendo le cose per la prima volta e allo stato nascente. (…) Ma lucreziano è indubbiamente il senso unitario e universo della vita, più in particolare il fremito di erompente energia che si coglie nelle profondità del vivente. Soprattutto in questo ultimo significato è probabile che una possibile grande poesia del futuro sia destinata a essere sempre più lucreziana». Mario Luzi scrive queste parole nel 1973 (in un saggio raccolto, l’anno successivo, in Vicissitudine e forma), prefigurando implicitamente la traiettoria fortunata di Lucrezio nella poesia del secondo Novecento. In effetti saranno in molti a tornare a questa grande miniera: da Giorgio Orelli a Jolanda Insana a Edoardo Sanguineti, una parte non trascurabile della civiltà poetica contemporanea ha guardato a questo modello, lo ha attraversato il più delle volte di sbieco, prelevandone di volta in volta quel che le serviva, isolandone temi, radici ideologiche, versi memorabili. Nessuno, tuttavia, ha affrontato Lucrezio con la continuità e l’intensità di uno dei maggiori poeti dei nostri anni, Milo De Angelis, che ci ha da poco offerto la traduzione dell’intero poema, il De rerum natura di Lucrezio (Mondadori, pp. XVI-524, € 24,00). Il volume esce nella collana «Lo Specchio», sede di altre grandi riappropriazioni d’autore – vedi il Blake di Ungaretti – come a suggerire subito che siamo in presenza dell’ennesima prova – la più alta – di una lunghissima fedeltà di De Angelis al suo Lucrezio.

La tesina alla maturità
De Angelis non è certo nuovo all’esperienza della traduzione, né tantomeno alla traduzione dell’Antico (si pensi al Rapimento di Proserpina di Claudiano, voltato già nell’84 e riproposto qualche anno fa, o a una serie di epigrammi dall’Antologia Palatina, usciti nel 2005). Ma il corpo a corpo con Lucrezio è diverso, è unico. Comincia al liceo, addirittura con una tesina scritta per l’esame di maturità (davvero per De Angelis, vale quanto ha scritto un grandissimo come Czeslaw Milosz, secondo cui per alcuni poeti «la poesia è una continuazione dei quaderni di scuola»). Ci sono, poi, altre due occasioni-chiave da ricordare. La prima, negli stessi anni settanta, è legata alla rivista fondata da De Angelis e altri, ovvero «Niebo», che a Lucrezio dedicava una sezione del numero 4 (1978), intitolata «Atomi, nubi, guerre». Si tratta di una serie di frammenti scelti e tradotti a più mani dalla redazione della rivista (ma quella di De Angelis è certamente fondamentale). È un esperimento di disarticolazione e riassemblaggio di alcune schegge del poema lucreziano, che lasciano presagire la prova di traduzione che De Angelis affronterà all’inizio degli anni duemila: una scelta di frammenti, raggruppati per temi, esce prima per l’editore satyros (2002) e poi, ampliata, per SE, con un titolo suggestivo, Sotto la scure silenziosa (2005). Quell’antologia lucreziana era improntata – come già l’operazione compiuta per «Niebo» – all’appropriazione. Il lettore riconosceva subito la grande affinità, diciamo pure la ‘contemporaneità’ del poeta antico e del suo traduttore, che interveniva – a volte profondamente – nel testo: si può dire che lo spazio costretto del frammento invitava, in qualche modo, alla manomissione, segnalata intanto dalla scelta della prosa – non del verso – come strumento di traduzione. La riscrittura era spesso ben visibile, con tanto di firma d’autore. Stiamo a un solo esempio, un solo dettaglio.
Nel III libro Lucrezio affronta, su scia epicurea, il nodo della paura della morte, a causa della quale gli uomini possono compiere azioni scellerate. Ai versi 85-86 si legge: «Nam iam saepe homines patriam carosque parentis / prodiderunt, vitare Acherusia templa petentes». De Angelis, quasi vent’anni fa, li rendeva così: «Sono capaci di tradire la patria, di massacrare i parenti, di compiere qualunque gesto, pur di togliersi di dosso un po’ di morte». Lavorava cioè variando e espandendo: aggiungendo un verbo («massacrare») e un intero emistichio («compiere qualunque gesto»), entrambi assenti in latino. E soprattutto piallando il referente mitologico – l’Acheronte – e riscrivendo il finale, sciogliendolo in immagine («togliersi di dosso un po’ di morte»). Un finale nel quale il lettore – ecco la firma autoriale – poteva anche sentire risuonare il De Angelis poeta («ti chiedo un po’ di morte», dice un verso di Tema dell’addio, raccolta uscita nello stesso 2005). Niente di tutto questo, invece, nella nuova versione, molto più aderente all’originale: «Nel tentativo di evitare gli abissi dell’Acheronte, gli uomini / infinite volte hanno tradito la patria e i parenti più cari» (dove si noteranno, semmai, i suggestivi «abissi» per i più concreti «templa» e il più largo «parenti» – non l’atteso «genitori» – per «parentes», salvando così la veste antica della parola).
È una spia minima, ma può bastare per segnalare che, più delle possibili interferenze con la poesia deangelisiana, a saltare all’occhio è prima di tutto il ‘passo indietro’ del traduttore rispetto all’originale, il suo desiderio di rispetto del testo. Un rispetto che De Angelis cerca di conciliare con un’altra esigenza, che sembra fare da punto di riferimento per il lavoro traduttorio: la leggibilità della versione. Pur affidandosi al verso, De Angelis non rinuncia affatto a domare le asperità della sintassi e del lessico lucreziani, trasferendole in un italiano nobilmente fluido, scegliendo sempre una lingua viva, non un faticoso effetto-antico. Basterebbe guardare, ad esempio, al riavvio del verso, nelle quali i nessi latini che inaugurano l’esametro (i praeterea, i quapropter, i namque) sono per così dire ammorbiditi da soluzioni che cercano chiarezza immediata ma anche colloquialità (si rincorrono, nella versione, formule quali «facciamo chiarezza», «proseguiamo», «passiamo ora» ecc.). Allo stesso modo, lessico e sintassi tendono a sbucciare la scorza a tratti dura del latino lucreziano, con i suoi arcaismi e le sue asperità. Si prenda anche il solo attacco del poema, il celebre inno a Venere: «Aeneadum genetrix, hominum divomque voluptas / alma Venus…». I traduttori rischiano di incagliarsi già qui, fra gli attributi dedicati a Venere: Francesco Giancotti (nella sua versione del 1994) la chiama «Genitrice degli Eneadi», «piacere» e «datrice di vita», mentre Luca Canali (’90) la rende «Madre degli Eneadi», «voluttà» e «alma» (ricalcando dunque da vicino il latino). E De Angelis: «Madre dei Romani, gioia degli uomini e degli dei, / Venere feconda», in cui spicca, oltre a un genitivo di stirpe ‘ammodernante’ («Romani», non «Eneadi»), la scelta di un aggettivo più naturale come «feconda», nonché una splendida «gioia» per la «voluptas» lucreziana.

Moderna costellazione
Si è detto che il traduttore procede, in generale, con rispetto e aderenza. Non è detto, tuttavia, che l’esperienza del De Angelis poeta – anche se cautamente felpata – qua e là non possa affiorare. La stessa gioia appena intravista è, per esempio, una parola-chiave della sua lirica, almeno da Somiglianze in poi («noi che eravamo per la gioia», dice un suo memorabile verso). O ancora, si potrebbe guardare a come – nelle asciutte ma utili note che accompagnano la versione, alla fine di ciascuno dei sei libri del poema – immagini e temi lucreziani lascino trasparire un’impronta deangelisiana. Penso a come De Angelis valorizzi l’incontro, nel De rerum natura, di lessico guerriero e lessico amoroso, un po’ come in certe sue poesie di eros e di lotta. O a come, d’altra parte, Lucrezio sia riletto quale grande poeta dell’angoscia, sulla scorta di un libro di Luciano Perelli (Lucrezio, poeta dell’angoscia, La Nuova Italia, 1969) qui ampiamente citato e sfruttato: uno studio che poteva suggerire già l’attenzione ai grandi sfondi lucreziani – l’ossessione, l’esclusione dal proprio secolo, lo stesso amore – e che insieme cercava di proiettare Lucrezio in una modernissima costellazione di uomini fraternamente accomunati dal loro «senso del nulla», da Lenau a Nietzsche a Leopardi: e certo l’ultimo di questi fratelli è lo stesso poeta-traduttore. In questo continuo sforzo di affinità e lontananza sta la cifra ultima di questa impresa di Milo De Angelis: un tentativo di non togliere Lucrezio dal suo lontano incanto, ma allo stesso tempo di trans-ducere, di condurlo fino a qui, in colloquio con noi, restituendocelo più intimo e insieme più distante.

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