Allargare lo sguardo per evitare che il dibattito sul ddl Zan si chiuda in un’ottica provinciale: questo, in sostanza, l’invito che fa Luciana Goisis, docente di diritto penale nell’università di Sassari, tra le massime esperte italiane in materia di crimini d’odio e discriminazioni.

Professoressa, cominciamo dalla critica più radicale al ddl: la legge non serve, le aggravanti per futili motivi ci sono già, quindi le persone lgbtq e le donne sono già protette. È vero?

L’aggravante dei motivi abietti e futili non è in alcun modo in grado di cogliere la specificità delle manifestazioni d’odio di cui si sostanziano gli hate crimes. La giurisprudenza interpreta tale aggravante in maniera unanime tenendo conto della «coscienza media del popolo in un dato momento storico»: è noto che il rigetto dell’odio razziale, religioso, xenofobo, omofobo e di genere nella attuale coscienza sociale non è univoco e quindi in tali casi l’aggravante non viene applicata. Nel nostro ordinamento c’è già l’aggravante dell’odio etnico, nazionale, razziale e religioso, mentre fra le caratteristiche protette mancano l’orientamento sessuale, l’identità di genere e il genere, diversamente da quanto accade invariabilmente nel diritto straniero.

La legge, quindi, è necessaria.

Sì, anche perché esiste un obbligo internazionale, quanto meno implicito per l’hate crime omofobico ed espresso per il gender hate crime. Un obbligo corroborato dalla ormai costante giurisprudenza della Corte di Strasburgo, che è un parametro di costituzionalità anche nell’ordinamento italiano. E non si dimentichi quello che noi chiamiamo il dato vittimologico: non si può ignorare l’alta vittimizzazione di donne e persone Lgbt, oltre che disabili, cui pure verrebbe estesa la tutela penale.

Un altro genere di critica verte sulle varie definizioni, in particolare sesso, genere, identità di genere. L’ex guardasigilli e giudice costituzionale Flick sostiene che potrebbe bastare «sesso», interpretandolo in chiave non solo biologico/anagrafica. Lei cosa ne pensa?

La Convenzione di Istanbul è chiara: occorre introdurre l’ottica di genere nelle nostre legislazioni penali. Genere che sta ad indicare non solo la differenza corporea e biologica, ma anche quella culturale e sociale. L’esistenza della violenza contro le donne basata sul genere è un fatto. La Convenzione di Istanbul, ratificata all’unanimità dal Parlamento nel 2013, la definisce in dettaglio: la «violenza di genere quale violenza agita contro la donna ‘in quanto donna’» ha ottenuto pieno riconoscimento ed esige interventi risolutivi. Sul piano terminologico io opterei piuttosto per la soluzione inversa: abbandonare il sesso e mantenere il genere in quanto nella nostra legislazione è già chiaro che il termine genere comprende la differenza sessuale. Come in molte legislazioni straniere.

Variazione sullo stesso tema della domanda precedente: c’è chi sostiene che andrebbero bene «orientamento sessuale» e «genere», ma non «identità di genere», perché sarebbe un concetto poco chiaro e troppo ideologico.

Non è così. Nell’ambito della legislazione europea e internazionale, del diritto straniero, ma anche del diritto italiano – si pensi all’art. 1 dell’ordinamento penitenziario – il termine «identità di genere» ha assunto un significato chiaro. Quasi tutte le legislazioni straniere che puniscono gli hate crimes di stampo transfobico lo fanno attraverso l’uso di questo concetto. Escludere dalla disciplina penale le vittime di transfobia significa non tutelare soggetti estremamente vulnerabili.

Quindi le definizioni contenute nel ddl Zan non spalancano la porta a un eccesso di potere interpretativo dei giudici.

Esatto. Io semmai rilevo un problema diverso: la nozione di atto di discriminazione andrebbe delineata meglio. In Francia è prevista la discriminazione quale autonoma figura di reato: qualsiasi distinzione operata fra le persone fisiche, sulla base dei fattori protetti, è punita con la pena di tre anni d’imprisonnement e la pena dell’amende pari a 45mila euro. Ecco la definizione della nozione di discriminazione del codice penale francese: «rifiuto di fornire beni o servizi, ostacolo al normale esercizio dell’attività economica, rifiuto di assumere una persona, sanzione o licenziamento della persona, subordinare la prestazione di un bene o servizio, l’offerta di un impiego, una domanda di tirocinio o un periodo di formazione a condizioni relative alle caratteristiche della persona». Definendo più chiaramente la nozione di atto di discriminazione, si potrebbe arginare anche il problema di un eccessivo potere interpretativo in capo alla magistratura.

È un rischio che vede?

In generale occorre sempre fare attenzione a non violare il principio di legalità in materia penale, nella forma della precisione o sufficiente determinatezza della fattispecie. Altrimenti il rischio è che i cittadini non siano in grado di compiere «libere scelte d’azione» e che si crei un eccessivo arbitrio giudiziale. Proprio per questa ragione sarebbe importante una definizione della nozione di atto di discriminazione, come dicevo, sull’esempio di quanto avviene in altri ordinamenti europei.