A conti fatti tutto si giocherà su una manciata di voti, 17 per la precisione. E’ la differenza tra quanti al Senato sono favorevoli al ddl Zan (Pd, LeU, M5S, Italia Viva e Autonomie) e chi invece il disegno di legge contro l’omotransfobia nella migliore delle ipotesi lo vorrebbe modificare, ma sarebbe più felice se venisse archiviato definitivamente (Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia).

Sulla carta, dunque, il ddl che ha spaccato la maggioranza che sostiene il governo Draghi, fatto infuriare la Cei (prima) e provocato (poi) addirittura una nota ufficiale della Sante Sede costringendo il premier a ricordare che il parlamento è «libero di legiferare» e l’Italia «è uno Stato laico e non confessionale», potrebbe farcela allineando così il nostro Paese ad altri Stati europei.

Sulla carta perché la realtà, come sanno tutti, è cosa ben diversa. Se il testo arriverà davvero nell’aula di Palazzo Madama e metà luglio, come sperano i sostenitori della legge, dovrà riuscire a superare il voto segreto, un passaggio che definire rischioso è dir poco per via dei tanti incerti e dubbiosi che, a sinistra, potrebbero decidere di votare in maniera diversa da quella indicata dal partito di appartenenza. Ce ne sono un po’ ovunque. Si parla di cinque senatori Pd, una decina di pentastellati, un paio anche tra i banchi delle Autonomie. E poi c’è l’incognita Italia Viva, che da mesi non fa altro che chiedere un tavolo tra i gruppi di maggioranza per arrivare a un confronto anche con la Lega. Unica certezza: i senatori di LeU.

Sul fronte opposto, invece, bisogna affidarsi a qualche senatore di Forza Italia favorevole alla legge. Pare ce ne siano sette, non sufficienti però a salvare il ddl. Senza contare che, contrariamente a quanto accadde in passato con le unioni civili, questa volta Silvio Berlusconi non sembra voler lasciare i propri senatori liberi di votare secondo coscienza. «L’Italia ha bisogno di riforme, non del ddl Zan», ha detto ieri il leader azzurro durante un’iniziativa per l’apertura della campagna elettorale a Milano.

Anche se non decisivo, un passaggio importante si avrà mercoledì, quando a Palazzo Madama i capigruppo di maggioranza si vedranno per dar vita al sospirato tavolo di confronto sulla legge. A confermarlo è stato ieri il leghista Andrea Ostellari, presidente della commissione Giustizia dove il testo – del quale Ostellari si è autoproclamato relatore – è impantanato ormai da mesi proprio per l’ostruzionismo del Carroccio che, dopo la nota della Santa Sede, punterebbe a modificare almeno i punti che più preoccupano il Vaticano. Riuscirci significherebbe rimandare il ddl alla Camera dove è già stato approvato a novembre del 2020, con il rischio di affossarlo definitivamente. Italia viva permettendo l’ex maggioranza giallorossa ha però i numeri per impedire che questo avvenga, lasciando all’aula il compito di giocare la partita definitiva sulle sorti della legge.

Oggi a Roma e Milano si terranno i Gay Pride. Intanto la replica fatta in parlamento da Draghi alla nota vaticana è stata apprezzata da Emmanuel Macron che ha parlato di «approccio giusto» da parte de governo italiano. La Francia, ha spiegato il presidente, «è uno Stato secolare e laico da molto tempo», e Oltralpe «decide sempre il governo».