Tanto tuonò che piovve: dopo vari mesi di minacce contro le «pratiche commerciali scorrette della Cina, Donald Trump ha varato dazi protettivi del 25% su una vasta gamma di prodotti cinesi importati negli Stati uniti.

Il valore stimato è di 50 miliardi di dollari, di cui 34 entreranno in vigore il 6 luglio prossimo. Un’ora dopo l’annuncio, la Cina ha comunicato di avere pronti dazi equivalenti, prevalentemente sui prodotti agricoli che importa dagli Stati uniti.
I dazi americani si applicheranno su ben 1.102 categorie di merci, con l’esclusione di prodotti di largo consumo come i televisori e i telefoni cellulari (tutti gli iPhone della Apple sono prodotti in Cina da una multinazionale di Taiwan, la Foxconn).

Trump ha giustificato queste misure unilaterali con le responsabilità cinesi nella «distruzione» dell’industria americana e con l’enorme deficit commerciale che gli Stati Uniti hanno con Pechino (375 miliardi di dollari l’anno scorso). In realtà, il deficit commerciale è un sintomo non della crisi dell’economia americana ma, al contrario, del privilegio di poter continuare a consumare molto di più di quanto si produce, grazie alla posizione dominante del dollaro sui mercati mondiali.

I 50 miliardi di dollari sono in realtà una piccola parte dell’interscambio Cina-Stati Uniti: questi ultimi, nel 2017, hanno inghiottito merci cinesi per ben 505 miliardi di dollari, ovvero dieci volte di più. Ma, a questo punto la parola chiave è «escalation»: non un conflitto militare ma un progressivo allargarsi della guerra commerciale ad altri settori. Questo, in prospettiva, potrebbe bloccare o invertire la crescita del commercio mondiale, il vero motore delle economie di quasi tutti i paesi, e in particolare di quelli che hanno strutture produttive orientate all’esportazione, come la Cina, il Giappone, la Germania e la stessa Italia. All’orizzonte, una nuova recessione, forse più grave di quella del 2008.

L’esperienza degli anni Trenta insegna che i tentativi di difendere i mercati nazionali non danno mai gli esiti sperati, ma al contrario accelerano la marcia verso la stagnazione.

Per Trump si tratta essenzialmente di una mossa politica: onorare le promesse elettorali fatte alla sua base di «riportare in America» i posti di lavoro perduti nei decenni scorsi. I posti di lavoro persi nelle miniere, nelle acciaierie o nelle fabbriche d’auto, sono però scomparsi non per la concorrenza sleale di Pechino ma per la determinazione delle multinazionali americane nel delocalizzare gli impianti in paesi dove i salari sono dieci volte più bassi e gli scioperi violentemente repressi dai governi. Oggi non si possono riavviare le acciaierie smantellate di Pittsburgh o riaprire le miniere di carbone chiuse del West Virginia, né far ritornare i tempi in cui Ford, General Motors e Chrysler dominavano il mercato mondiale dell’auto. Probabilmente anche Trump sa che gli Stati uniti di oggi sono assai diversi da quelli di un tempo, ma gli importa solo di mantenere il consenso di chi l’ha votato 18 mesi fa, dando l’impressione di essere un leader forte che mantiene le sue promesse e non guarda in faccia a nessuno.

Politicamente, la manovra potrebbe anche riuscire se la situazione non sfuggirà di mano: si vota a novembre per l’intera Camera, per un terzo del Senato e per molti posti di governatore. L’economia va bene, si creano nuovi posti di lavoro, gli indici di Wall Street sono al massimo storico: Amazon, che ancora un anno fa valeva circa 900 dollari ad azione, ieri era a quota 1720, quasi il doppio e non sembrava risentire troppo della minaccia di un braccio di ferro con la Cina. Se Trump riesce a convincere i suoi elettori a recarsi alle urne il partito repubblicano potrebbe mantenere la maggioranza sia alla Camera che al Senato nonostante la tradizione che vuole il partito del presidente penalizzato nelle elezioni di metà mandato.

Naturalmente tutto ciò vale «se» la situazione non sfugge di mano, ovvero se il timore di un rallentamento del commercio mondiale non innesca un crack di borsa che si tradurrebbe immediatamente anche in un brusco stop alla crescita dell’economia con conseguenze sull’occupazione.