Siamo così assorbiti nel focalizzare il nuovo governo dentro lo schema binario nuovo versus vecchio e superato, che non vediamo come potrebbe esser incasellato nello scenario internazionale.

Le attuali guerre commerciali costituiscono un utile angolo visuale per leggere i processi contemporanei. Esse producono un’accelerazione nel ripiegamento in atto da un paio di decenni, precisamente dal fallimento del Wto di Seattle nel 1999.

Da lì la globalizzazione iniziò a mostrare la corda, poi ci fu la crisi della new economy e quella finanziaria. Furono rotti i ranghi della globalizzazione, si affermarono crescenti spinte centrifughe, proprio a partire dagli Usa.

L’Europa seguì.

Ora l’onda nazional-populista rilancia.

Dopo i dazi contro la Cina, suo principale rivale, Trump questa settimana fa entrare in vigore nuovi dazi su acciaio e alluminio per Europa, Canada, Messico.

Il Vecchio continente ipotizza contromisure, il Messico da martedì colpisce le esportazioni americane su carne di maiale e formaggi, cioè merci prodotte in particolare nei bacini elettorali repubblicani.

Una partita economica e politica insieme, dove è indubbio il sapore razzista e anti-immigrati di tanta parte del polo sovranista emergente.

Il rischio è la costituzione di un terreno scivoloso fatto a colpi di dazi, in cui è certo il punto di partenza, ma non quello di arrivo. Dove ogni protagonista è costretto a rilanciare per auto-difendersi o limitare i danni.

Gli Usa contano sul loro potenziale di riserva militare e tecnologico e sul disavanzo commerciale stesso, per intimidire partner e rivali.

Giorgio Barba Navaretti sottolinea come nonostante il ripiegamento in corso esista però una certa «resilienza» degli assetti produttivi e commerciali figli della globalizzazione.

L’Economist ha recentemente messo in evidenza come i volumi degli investimenti esteri tra multinazionali nel 2016 siano stati di 2.744 miliardi di euro per quelle europee negli Usa e di 2.391 per quelle statunitensi in Europa.

Gli investimenti tra Vecchio continente e paesi come Cina, Russia e Giappone rappresentano invece solo il 15% di quelli con gli Usa.

Nel commercio l’equilibrio è maggiore, nel 2017 l’Unione europea ha importato dalla Cina beni per una quantità superiore a quelli che ha ricevuto dagli Usa (374 miliardi di euro contro 256) e al contempo ha esportato nei tre paesi asiatici per un valore sempre superiore (420 contro 375).

Esistono, dunque, trame su scala sovranazionale ancora solide. Ma non può sfuggire un cambio di marcia.

Persino la bandiera della globalizzazione impugnata dalla Cina risponde più a logiche nazionali che a una spinta strutturale di un mercato aperto.

Sempre l’Economist ha provato a spiegare perché le imprese americane tutto sommato sostengano le politiche di Trump, sottolineando come, in un passaggio complessivamente difficile per l’economia dei paesi occidentali, Washington abbia ridotto la regolamentazione sia rispetto all’epoca di Obama sia a quella di Bush, compresa quella nel settore bancario.

Per non dire della decisa riduzione della tassazione in particolare proprio sulle aziende.

Infine, nei commerci una quota di protezionismo non è avversata dalla gran parte delle imprese, specie se rivolta a tutelarsi dalla Cina.

Probabilmente i costi tariffari ricadranno sui consumi, ma il mercato interno, da cui tanta parte degli assetti produttivi medio-piccoli dipendono, potrebbe riprendere fiato, almeno temporaneamente.

D’altronde l’Economist attesta che negli Usa persino i profitti derivanti da vendite all’estero con la crisi sono scesi dal 32% al 20% del totale.

Queste nuove linee di tendenza non possono lasciare indifferente la politica a stelle e strisce, ma neppure l’economia.

Un nuovo mercato sempre dal profilo ipercompetitivo, ma a centratura nazionale si va consolidando.

Come scrive nel suo ultimo libro Lia Levi «la normalità non sa di esserlo. Procede a tratti brevi».