Dice Tsai Ming-liang di avere smesso, dopo Stray Dogs, di fare film come li faceva in precedenza, di essersi liberato del tutto della sceneggiatura (che già usava come un pre-testo, sganciandosi da ogni sua forma tradizionale) e, più in generale, di un modo convenzionale di realizzare opere per il cinema. Di avere radicalizzato la sua posizione di cineasta, aprendosi a nuove esperienze visive realizzando lavori per musei e sperimentando la realtà virtuale. Un percorso artistico esplorato da Tsai negli ultimi anni, allontanandosi dal lungometraggio e da un fare cinema pensato per il grande schermo. Per farvi ritorno nel 2020, sette anni dopo Stray Dogs, con Days (da oggi nelle sale grazie alla coraggiosa distribuzione di Double Line). Un film che azzera i dialoghi (comunque scarni in tutta la filmografia dell’autore taiwanese), che ospita nelle oltre due ore di durata solo alcune frasi in due scene (quando il personaggio interpretato da Lee Kang-sheng – attore e corpo cresciuto con il cinema di Tsai, modificatosi dentro ogni suo film nell’evolversi di un rapporto cinema-vita che non può non far pensare a quello tra François Truffaut e Jean-Pierre Léaud – si sottopone a una seduta di agopuntura, e quando lo stesso personaggio incontra il giovane co-protagonista in una camera d’albergo). Frasi che, nella versione originale, non sono state tradotte (scelta indicata, sempre nella versione originale, con l’avvertenza iniziale «Il film è intenzionalmente non sottotitolato»), a differenza di quella italiana.

DUE UOMINI. Due solitudini. Due vite silenziose che si intrecciano per un breve, ma intenso, periodo di tempo prima di separarsi di nuovo, eppure profondamente cambiate da quell’incontro. Del loro passato non si sa nulla, non hanno un nome (sulle schede del film si chiamano Kang e Non, pur se sui titoli di coda compaiono soltanto i nomi dei due attori, e se Lee ha una filmografia trentennale, Anong Houngheuangsy, laotiano trasferitosi a Bangkok, è al suo esordio), li incontriamo nel loro presente, in una quotidianità dove tutto appare immobile, cristallizzato, segnato da gesti rituali. L’adulto, Kang, sofferente di dolori al collo e alla schiena (realmente patiti da Lee Kang-sheng e documentati nel corso dei film da Tsai, fin dai tempi de Il fiume, e che rendono Days un testo in cui vita personale e filmica si sovrappongono producendo un potente cortocircuito emozionale), seduto su una poltrona, osserva un fuori campo che vediamo riflesso su una vetrata, alberi scossi da un temporale. Una mise en abyme di immagini così come di suoni, quelli della pioggia e del vento. Con quei rumori colti dal reale Tsai costruisce la colonna sonora di Days, senza mai ricorrere a una musica appoggiata sulle immagini. Toglierebbe loro verità e respiro. Il giovane, Non, invece, trascorre le giornate preparando meticolosamente dei piatti, pulisce con cura le verdure, fa bollire gli ingredienti, attende.

FUORI, per entrambi, c’è la città, trafficata e indifferente. Le vite scorrono parallele. Fin quando qualcosa di inatteso, di magico, di «inspiegabile» (nel senso di trascendere una narrazione cronologica), accade. In quella che è la scena madre di Days. Come la maggior parte delle altre, e come nel cinema di Tsai, inscritta nel piano sequenza, o in una serie di piani sequenza, nella stabilità della macchina da presa che lascia prendere forma una moltitudine di cose all’interno delle inquadrature. Una scena che Tsai gira in una bella camera d’albergo e che descrive la conoscenza carnale dei due uomini, iniziata come un massaggio sul corpo dolente di Kang e proseguita come una lunga, lenta, vellutata carezza su ogni parte di quel corpo. E se intervento musicale deve esserci, sarà quello, diegetico, del carillon regalato da Kang a Non prima di lasciarsi e che, azionato, diffonde il tema di Luci della ribalta di Charlie Chaplin. Quell’oggetto diventerà memoria dell’incontro. Il giovane ascolterà quelle note anche tempo dopo (un tempo imprecisato, come in tutto il film), nella scena finale, da solo per strada. Mentre poco prima Kang, sdraiato sul letto, aveva aperto gli occhi, come intento a ripensare l’esperienza vissuta e rivedere il volto e il corpo del giovane, custodirne la sua immagine.