Ancora oggi è molto diffusa una immagine della genetica di grande fascino, secondo la quale tanto il divulgatore scientifico che l’irriducibile innatista del Mit di Boston tendono a descrivere il patrimonio genetico degli esseri viventi come fosse un programma industriale. Vi sarebbero delle istruzioni produttive (il progetto della nuova Fiat Panda, il Dna umano) realizzate in singoli prodotti finiti (l’automobile, il singolo organismo).

È un modello relativo al funzionamento dell’espressione genica suggestivo perché semplice. A ogni istruzione (il singolo gene) corrisponderebbe un pezzo del corpo o del comportamento di un vivente (la forma del pancreas, le predilezioni sessuali, la dieta). L’istruzione genetica avrebbe, proprio come un progetto di design, la caratteristica di funzionare in termini discreti: costituirebbe l’avvio di un processo produttivo che, una volta finito, ritorna nel cassetto. Per la discussione di quel che potremmo chiamare il «modello fordista della genetica» è utile confrontarsi con il testo di Sam Kean Il pollice del violinista e altre storie perdute d’amore, di guerra e di genialità narrate dal nostro codice genetico (Adelphi, traduzione di Giovanni Muro, pp. 456, euro 30,00), titolo che allude alle straordinarie capacità musicali di Niccolò Paganini, violinista dalle dita tanto flessibili da poter divaricare il mignolo a novanta gradi rispetto al resto della mano.
La scelta di cominciare con le capacità fuori scala di un musicista unico è esplicitamente provocatoria. L’obiettivo di Kean è mettere in discussione l’idea che l’eredità genetica sia un lascito definitivo, che si esprima una volta sola (cioè alla nascita) e che poi i giochi siano fatti. Per dar corpo a questa impresa di demolizione teorica, il testo è strutturato per capitoli talmente autonomi da poter esser letti singolarmente: ciascuno di essi è dedicato alla descrizione di un aspetto della genetica accompagnato dalla narrazione, di grande efficacia, delle traversie esistenziali di alcuni dei suoi protagonisti umani. Il risultato è la composizione di una galleria, concettuale e biografica, tutt’altro che scontata.

Sorprende, ad esempio, la presenza massiccia di figure femminili: negli anni trenta suor Miriam Stimson introdusse tecniche sperimentali di grande utilità con le quali analizzare le basi del Dna tramite raggi ultravioletti e infrarossi; Barbara McClintock si rivelò una esperta senza pari, almeno nel secondo dopoguerra, della genetica del mais grazie a un colpo d’occhio insuperabile nella lettura al microscopio degli intrecci cromosomici; negli anni sessanta Lynn Margulis fornì un apporto decisivo all’idea che i mitocondri (organelli a forma di fagiolo che apportano energia alle cellule) siano portatori di Dna indispensabili per la variabilità evolutiva della vita. Questa struttura a incastro fa del Pollice del violinista un’opera doppiamente cronologica. Per un verso si parte dalle prime scoperte di Mendel (siamo a metà del XIX secolo) circa i caratteri ereditari delle piante di piselli fino ad arrivare, nell’ultima e meno riuscita delle sezioni, alla recente clonazione di organismi viventi o alla possibilità prossima ventura di costruire computer a base di Dna.

Per un altro verso, il libro ha l’ambizione di fornire anche una descrizione cronologicamente ordinata dell’evoluzione della vita sul pianeta Terra. Si comincia con i meccanismi genetici negli organismi unicellulari per arrivare a parlare nel dettaglio, qualche centinaio di pagine dopo, delle relazioni di parentela che sussistono tra Sapiens e Neanderthal. Il lavoro ricostruttivo esibisce meriti indubbi, tagliando alla radice la tentazione di considerare le scienze empiriche una torre dorata fuori dallo spazio-tempo. Gli interrogativi circa la vicinanza genica tra scimpanzé e umani sono raccontati, ad esempio, mediante l’illustrazione dei tentativi di inseminazione artificiale di Ilja Ivanovic Ivanov. Negli anni venti lo scienziato sovietico ottiene l’autorizzazione di Stato per terribili esperimenti di fecondazione tra sapiens e scimmie grazie ai quali sancire il trionfo del materialismo storico (con risultati catastrofici). Il testo contribuisce, inoltre, a complicare il quadro di una delle scienze oggi più in espansione: a un primo sguardo, infatti, la genetica sembra costituire la migliore garanzia per identificare un discrimine preciso tra specie diverse e l’analisi del Dna può ricordare un processo simile a quello del poliziotto che controlla il numero di telaio di un’auto sospetta. Ma Il pollice del violinista propone numerosi dati che procedono in direzione opposta. L’otto per cento del genoma umano, per dirne una, è fatto di geni di vecchi virus che abbiamo inglobato nel nostro Dna.

Poiché in termini percentuali la quantità di codice esclusivo dei sapiens ammonta al 2%, Kean conclude con ironia che se considerassimo la genetica in termini meramente quantitativi saremmo «quattro volte più virus che umani». Detto ciò, il carattere brillante di una scrittura avvolgente rischia di nascondere ambivalenze teoriche che meriterebbero d’essere discusse. Kean dichiara a chiare lettere che occorre pensare a una «genetica soft». L’analisi genetica è in grado di predire solo in termini di probabilità la comparsa di malattie durante la vita di un individuo o tendenze comportamentali tipiche della specie, e il libro insiste giustamente sul fatto che oggi la scienza di Mendel si stia trasformando in qualcosa di differente che porta il nome di «epigenetica».

Il modello fordista per spiegare l’azione dei geni è inadeguato poiché il Dna agisce durante tutta la vita dell’organismo e non certo solo durante la gestazione o la prima infanzia. Tanto più che l’espressione dei geni è condizionata da fattori ambientali in grado di modularne l’azione: durante la gravidanza, nel caso dei mammiferi, ma anche in periodi di molto successivi. Studi longitudinali su un villaggio svedese colpito da una serie ciclica di carestie suggeriscono, ad esempio, che la denutrizione per bambini maschi tra i nove e i dodici anni sia potenzialmente più dannosa di quella neonatale poiché incide su un momento decisivo per la ricablatura genetico-sessuale di un organismo che si prepara alla pubertà. Eppure, anche Kean sembra non resistere al fascino del modello fordista del Dna, perché descrive come attendibili esperimenti controversi secondo i quali saremmo attratti sessualmente, per mezzo di feromoni, da persone dal profilo genetico molto diverso dal nostro (cosa che diminuirebbe la possibilità di malattie in caso di procreazione). Kean sostiene con sicurezza che per i sapiens essere musicisti straordinari come Paganini sarebbe, per dirne una, «l’equivalente di un piumaggio da un metro», lasciandosi anche andare a espressioni generiche e tendenziose come quella secondo cui dovremmo accettare che la nostra eredità genetica ancestrale ancora oggi «condiziona il nostro modo di pensare».
Non c’è dubbio che senza l’opportuno Dna non avremmo né cervello, né corpo; il problema è cosa intendere con l’espressione «condizionamento». Se la si intende in termini di condizioni di possibilità materiali (senza corpo, nessun pensiero) è la più scontata delle affermazioni, almeno per chi non è interessato allo studio dell’anima. Se invece si vuol dire che il Dna modella, pezzo per pezzo, i comportamenti dell’Homo sapiens, rischiamo di far rientrare dalla finestra quel che sembrava finalmente uscito dalla porta, considerando ancora una volta la genetica come piano industriale della specie.