Le notizie di uccisioni, coprifuoco, assedi, che arrivano dal Kurdistan turco sono ormai un fiume in piena. Ogni giorno le agenzie kurde indipendenti tentano un monitoraggio faticoso, mentre gli attivisti sui social network provano a rompere il muro di silenzio sulla brutale campagna militare in corso nel sud est della Turchia.

Un fiume in piena: Cizre arriva a 55 giorni di coprifuoco ininterrotto, Sur – dove restano 20mila residenti dei 70mila originari – supera i 60. A cadere sono spesso donne e bambini: secondo l’agenzia kurda AnfEnglish, ieri una 22enne incinta, Zerin Uca, è morta per un attacco di cuore perché l’ambulanza è stata bloccata dall’esercito turco. Che – aggiunge il sito – a chilometri di distanza, al confine con la siriana Rojava, uccideva una bambina di 9 anni con due colpi di pistola.

Una soluzione, dice il governo turco, c’è: quello che venerdì il premier Davutoglu ha presentato è un nuovo Kurdistan, represso e costretto al silenzio dalla violenza di Stato. Il primo ministro ha svelato i dieci punti del piano di azione per «ristrutturare» il sud est del paese, devastato da sei mesi di conflitto. «Che nessuno si preoccupi – ha esordito Davutoglu – Non importa dove siate, a Diyarbakir, a Mardin, a Silopi: sarete risarciti delle vostre perdite dovute al terrorismo. Questi miliziani hanno aperto il fuoco, ma noi faremo crescere un giardino di rose al posto del fuoco».

Il giardino di rose immaginato dal governo turco si fonderà su «l’eliminazione delle differenze tra nazione e Stato, sull’unità e l’integrazione». Parole che al popolo kurdo ricordano gli anni terribili della negazione della propria identità, lingua, cultura, della trasformazione fisica e demografica del territorio, dell’espulsione di massa dei contadini e la confisca delle terre.

Il piano di azione costerà 9 milioni di dollari e servirà a sradicare «le azioni terroristiche, che vengano dall’Isis o dal Pkk», a dare vita ad un sistema di comunicazione e consultazione, a ristabilire l’ordine pubblico, ad attuare riforme democratiche e a creare spazi mobilitazione sociale.

La Turchia sa che è il momento di agire, che la copertura fornitagli dalla minaccia dello Stato Islamico è la perfetta giustificazione alla campagna contro il Partito Kurdo dei Lavoratori. Va sconfitto ora, prima che i venti di autonomia di Rojava (che all’ideologia del leader Ocalan si richiama) “contagino” definitivamente il Kurdistan turco. Ora Ankara gode del sostegno della Nato in chiave anti-russa e del silenzio della Ue che ha bisogno che blocchi le frontiere ai profughi in continua fuga.

Per questo prosegue le operazioni militari a sud est, dove dispiega forze armate come se stesse combattendo una guerra reale contro un altro esercito. E per questo continua a bombardare il nord dell’Iraq, le montagne di Qandil, dove si nascondono combattenti del Pkk: questa settimana l’aviazione turca ha lanciato una dura offensiva aerea guidata da droni di sorveglianza e portata avanti dai jet F-16. Secondo l’esercito, sarebbero stati colpiti circa 150 target.

L’operazione ha scatenato le proteste del governo iracheno, già furioso per la presenza di truppe turche nella base militare di Bashiqa, alle porte di Mosul. Il Ministero della Difesa di Baghdad è tornato ad accusare Ankara di violazione della sovranità irachena e chiesto l’immediato ritiro.