Per un appassionato di cinema come Sebastiano Riso essere in concorso alla Semaine de la Critique con il suo film d’esordio Più buio di mezzanotte è stata una grande soddisfazione, nella stessa sezione dell’esordio di Bertolucci (e aggiungiamo, di Skolimowsli, Makavejev, Straub, Garrel, Iosseliani…). anzi, aggiunge: «Quando ho ricevuto la comunicazione mi sono venuti i brividi, perché ho pensato a quanti soldi ho fatto spendere alla mia famiglia quando ogni anno andavo a Cannes con l’ansia di vedere quanti più film potevo. Allora facevo parte del pubblico, ora ci vado come regista». Ci facciamo raccontare la strada che lo ha portato fino a Cannes: «Un giorno ero sull’aereo che mi portava da Catania a Roma dove frequentavo un corso di sceneggiatura al Centro Sperimentale ed ho incontrato Davide Cordova che mi ha raccontato delle cose sulla sua vita che mi hanno fatto pensare a un film. È facile dire ’la sua vita era come un film’, ma si trattava di una storia talmente forte, i fatti della sua vita sono stati così estremi da non sembrare possibili. L’ho invitato a iniziare una chiacchierata che poi è diventata sceneggiatura scritta con Stefano Grasso e Andrea Cedrola, da cui sono state eliminate tante cose perché sembravano troppo inventate». Il primo impatto con Davide Cordova, in arte Fuxia, star del Muccassassina, divina Drag Queen, «portaborsette» di Vladimir Luxuria, quindi non è stato sui luoghi canonici delle sue esibizioni. «Nella sceneggiatura abbiamo fatto una scelta legata alla poesia. Quando un fatto non diventava poetico e quindi universale, l’abbiamo tolto, perché volevamo che le vicende potessero essere quelle vissute da un ragazzino di qualunque luogo. Il film è ambientato a Catania, la mia città, una città incredibile, molto nera perché costruita con la pietra lavica, attiva culturalmente perché si fa molto teatro e musica dal vivo, uno scenario perfetto per le arti. È una città paradossale dove convivono machismo e omosessualità, dove durante il confino c’era due o tre milanesi, due o tre romani e pochi altri e ben 65 catanesi perché la comunità omosessuale lì è sempre stata molto grande. È una terra molto religiosa che però convive con la mafia, è una delle regioni più controverse d’Italia, e anche delle più cinematografiche per le sue contraddizioni. Ho scelto come location quella che era più adatta alla storia. Per esempio il quartiere a luci rosse che è come un ghetto al centro della città, è stato uno dei primi d’Europa, un luogo dove da ragazzini ti dicevano di non avvicinarti e infatti la prima volta che ci andai rimasi sconvolto. Il quartiere di San Berillo è un mondo a parte, come una bolla, il luogo dove vivono i miei meravigliosi emarginati che accolgono il ragazzino in fuga. Questa è una storia di grande solitudine, di emarginazione. Le transessuali sono l’ultimo scalino della scala sociale, vivono in un mondo a parte, in una bolla che ho tentato di ricreare tecnicamente attraverso delle lenti anamorfiche degli anni ’70. Con il direttore della fotografia Piero Basso che vive e insegna a New York abbiamo fatto tanti tentativi, ci siamo accorti che il digitale riproduce talmente la realtà che toglie la poesia. Gli ho proposto di aggiungere lenti artigianali, sporche: i bordi appaiono alterati. Siamo sempre addosso per tutto il film al protagonista e la resa è meravigliosa, le luci fanno delle rifrazioni prodotte da quelle lenti». Momento magico per un appassionato di cinema poi è stato scoprire che due di quelle lenti erano proprio le stesse usate in Apocalypse Now. «Volevamo fare un film politico e di avventura, un incontro tra Sadokan e Gus Van Sant. Non semplicemente un romanzo di formazione, ma un intreccio fra Antoine Doinel e Christiane F. In Italia il cinema vive un momento di grande crisi, c’è una frattura tra cinema d’autore e cinema commerciale. La vie d’Adèle ad esempio è un film grandioso che in Italia hanno visto in pochissimi» e gli ricordiamo che Kechiche non a caso è stato scoperto dalla Settimana della critica a Venezia. «Piano piano, a forza di far vedere schifezze, la gente si è abituata. Noi abbiamo voluto fare non solo un film politico, ma anche d’avventura perché fosse accessibile al pubblico. Si dice sempre che si aspetta dal cinema italiano il nuovo Fellini, ma non è questo che serve, quanto un nuovo Alfredo Bini, un nuovo produttore coraggioso, un nuovo Ennio Flaiano. Il nostro produttore Claudio Saraceni che ha settant’anni, ha prodotto Fellini e poi ha fatto anche Fantozzi per tanti anni e ha dimostrato un coraggio enorme. Tanti cineasti hanno il senso dell’immagine, ma quanto scrittori coraggiosi ci sono? Il coraggio devono averlo quelli che investono e quelli che scrivono. Il fatto che quest’anno in concorso a Cannes ci sia Godard è un segno perché per noi è stato un maestro, un punto di riferimento. Lui con Chabrol, Truffaut hanno fatto una rivoluzione spazzando via il vecchio cinema, quello brutto, finto, ipocrita, conformista che c’era all’epoca. Oggi in Italia bisognerebbe fare lo stesso, torare al cinema autentico, la gente non vuole vedere cinema italiano perché è come nei rapporti, quando tu in amicizia tradisci, perdi la fiducia. Il Sicilia c’è la ’grande illusione’ che le cose cambino: io sono pessimista, per fare un film sulla mafia non c’è bisogno di fare trent’anni di vittime e omicidi. Nel mio film si parla di mafia indirettamente perché la mafia è ovunque è nel modo di pensare, mafia è tutto ciò che si adegua e questa accezione precisa che si riferisce alla mentalità mafiosa E il conformismo di certo cinema italiano è mafioso perché porta più facilmente denaro, se ti adegui». Per trovare il protagonista? «Ci ho messo due anni, ho fatto novemila provini negli oratori, nelle spiagge, nelle scuole perché il 90 per cento della riuscita del film poggiava sulla scelta del protagonista. Davide è stato ’rubato’ al liceo musicale a Palermo. Quando lo vidi dissi al direttore del casting: è lui. Ma è una ragazzina, mi disse e quando si avvicinò fu bloccato da quattro amazzoni, quattro ragazzone del liceo, sue compagne di classe che lo circondano, lo difendono, gli fanno da scudo. Solo quando hanno capito cosa volevamo, si sono guardate, hanno annuito e hanno permesso che ci avvicinassimo. Si chiama Davide anche lui. Con Davide e gli altri ragazzi trovati per strada in situazioni estreme ho fatto per due mesi cinque ore di training al giorno, i rapporti di amicizia che si creano così vengono dalla mia esperienza teatrale, portati al cinema producono un effetto di realtà. L’omosessualità in quanto tale non è il tema del film, ma è uno dei modi per mostrare a chi non vuol vedere quello che c’è oggi in Europa e soprattutto in Italia. Abbiamo un attacco sistematico alle tre parole cardine della civiltà moderna, libertà ugualianza e fratellanza, dall’altra c’è la difesa e la nostra resistenza e il cinema deve essere uno degli strumenti». Il film realizzato con il sostegno della Regione Sicilia e della Sicilia Film Commission sarà in sala dal 15 maggio, distribuisce il Luce.