L’irrompere nell’inquadratura di una profondità di campo e di pensiero non è usuale nel cinema italiano contemporaneo, anzi addobbare il futile è diventato lo stile corrente. Davide Manuli in La leggenda di Kaspar Hauser si muove controcorrente espandendo le possibilità di sguardo e udito. Dove l’apparenza è il vuoto e necessita di azione ecco mettere in scena le sue figure pregnanti, ma questo ci riporta a un periodo di grande rinnovamento, gli ex campi di battaglia diventati scenari di nuove visioni, le nouvelles vagues.

Le città bombardate poi abitate dai ventenni sempre in giro da un quartiere all’altro o sui tetti a guardare l’orizzonte, o il «sertao» a veder comparire gli eroi del passato, i diavoli biondi. La Sardegna prima spazzata dal vento, poi percorsa da brividi elettronici si mostra per scene successive, tagliate un attimo prima di trovare l’orientamento: muri, torri di avvistamento, case e piazzali. Quasi come nella controra quando si gioca a sceriffi, si va in bici, si mostrano le pistole di plastica e poi arriva anche il nuovo bambino, lo straniero, il turista compagno di giochi. Che si tratti di Kaspar Hauser si sa, è scritto in grande sulla pelle.

Tra il mito storico e lo psicanalitico, il divertimento e l’invenzione pura, come fosse Carmelo Bene a Otranto a buttarsi giù dalle torrette e fasciarsi con chilometri di bende, ma qui con austerità di propositi, ecco il cast composto per metà da Vincent Gallo nella parte sia dello sceriffo che del pusher, con un accento da Georgia o Alabama e Fabrizio Gifuni prete foggiano con tonaca svolazzante («sono colpito dalla grazia e dalla poesia con cui il regista è riuscito a raccontare la violenza del mondo in cui viviamo»). E poi i trilli di Kaspar, ragazzo venuto dal mare, miracolosamente illeso, epilettico, forse un santo, certo un simbolo dell’epoca che verrà, in cui riflettere come in uno specchio l’umanità nuova, ingenua e pura. Produrre e distribuire un film in Italia è spesso un calvario, ma La leggenda di Kaspar Hauser dal 13 giugno nelle sale è già stato presentato al festival di Rotterdam e ad un altro centinaio di festival, sta per uscire in Francia in grande stile accompagnato dai concerti di Vitalic e poi in Polonia, Germania, Russia. Dopo Beket «sull’assurdità dell’esistenza umana» Manuli compone un dittico, utilizzando ottiche larghe, il bianco e nero, pochi attori («come nelle nouvelles vagues» dice).

«Per il personaggio di Kaspar Hauser non era premeditato scegliere una donna androgina, doveva essere all’inizio un giovane circense russo che poi non siamo più riusciti a contattare» e così è arrivata l’illuminazione, la celebrata performer Silvia Calderoni di Motus vista almeno sei anni prima in Spettacolo con fratello rotto. «Questo è un film fatto su scelte forti, dice Manuli, non c’è grigio, va avanti solo prendendo enormi rischi, ogni scelta è stata fatta in questo modo. Il film ha un punto di partenza steineriano, non vuole riprendere la storia letterale di Herzog che ha fatto un bellissimo lavoro. Questo film, che ho in testa da vent’anni è stato fatto asciugando sempre di più le informazioni che pure ci sono su questo personaggio storico.

Senza perdere il punto di vista di Steiner che diceva che Kaspar Hauser è una reincarnazione del Cristo, un santo, un innocente. Mi interessava fare un film sulla non comunicazione che viviamo nella società. Noi ora siamo una società che non ha senso, né prospettiva né umanità». Ha un posto interessante in sceneggiatura anche Giuseppe Genna (è appena uscito per Minimum Fax Fine Impero) a cui si deve il monologo di Gifuni, il «cuore del film». «Nella storia vera Kaspar Hauser invece di morire diventa un animale da circo, il divertimento della Mitteleuropa dell’800, cercano di insegnare al povero ragazzo forse figlio di re rimasto in prigionia per sedici anni al buio, letteratura, musica, matematica, equitazione ed è stata proprio la borghesia ad ammazzarlo per i troppi stimoli, morto cerebralmente prima di essere assassinato.

Qui la musica – electro, non house – è importante perché lo sceriffo in pensione gli insegna non cento ma un solo mestiere, quello del dj di musica elettronica. La conoscenza è trasmessa non con le parole ma con l’energia. Anche la musica, come la Sardegna, come i personaggi è protagonista». Vincent Gallo? «Vincent ha accettato dopo aver visto Beket ed ha pazientato, anche se cominciava a diventare nervoso, perché ci sono voluti più di tre anni per montare il film (chiuso poi con il massimo dei punteggi grazie al Mibac, in gran parte alla regione Sardegna e alla regione Lazio). Fabrizio Gifuni è un gigante e Vincent è uno dei più grandi attori al mondo, lo dice anche Coppola, con il rammarico di non essere troppo considerato negli Usa. possiede una tensione artistica che altri attori non hanno. Buscemi, Sean Penn, se avessi proposto questa sceneggiatura non avrebbero accettato. Lui è ossessivo, fanatico, paranoico. Proprio come me».