Visioni

Davide Iodice: «Pinocchio, simbolo della violenza sociale che rende burattini»

Davide Iodice: «Pinocchio, simbolo della violenza sociale che rende burattini»Uno scatto di «Pinocchio, che cos’è una persona?» – foto di Renato Esposito

Intervista Il regista teatrale racconta lo spettacolo realizzato insieme a allievi con disabilità e non, al Campania Teatro Festival

Pubblicato più di un anno faEdizione del 14 giugno 2023

«Sono scatole nere/ impigliate in rioni del pensiero/ hanno vite che sorgono normali/ per sbiadire in aloni opalescenti/ lambite dagli sciatti rituali/ di moderne filiere di monatti/ noi li diciamo matti». Sul palco scuro della storica Sala Assoli ai Quartieri Spagnoli c’è una schiera di corpi non conformi. Giovani, adulti. Maschere zoomorfe, asini, conigli, volpi. C’è una grossa croce con dei libri inchiodati: il grillo parlante la porta su di sé come in una via crucis, «schiacciato sotto il peso del pregiudizio, della competizione, della discriminazione».

Davide Iodice

DA UN CERCHIO danzante si staccano a turno delle coppie. Madre e padri attaccano un naso adunco sul viso dei figli. Presentano i loro adorati Pinocchi. Pinocchio non riesce a camminare; si esprime in una lingua altra; adulto/ bambino. Sogna. Desidera un paio di mani nuove, una fidanzata, la patente; un teatro tutto per sé, un mondo senza barriere, una società che lo accolga. Pinocchio è Giorgio, Tommaso, Chiara, Ariele. La loro bellezza furiosa, indomabile e fuori norma, accende il fuoco del teatro. In una splendida partitura di danza e parole, tra ciocchi di legno e lumini di un rito, cortei onirici di madri fate e madonne, la storia del burattino più famoso del mondo ci parla di noi: della fragilità, dello scandalo di quest’epoca di normalizzazione violenta. E lo fa attraverso lo sguardo di chi, più di tutti, la subisce.
È un lavoro delicatissimo e ardente Pinocchio, che cos’è una persona?, presentato in anteprima al Campania Teatro Festival l’11 e il 12 giugno. Non spettacolo, ma esito di un percorso di drammaturgia partecipata con allievi della Scuola Elementare del Teatro di Napoli, fondata nove anni fa dal regista e pedagogo Davide Iodice. Un conservatorio popolare per le arti della scena gratuito, supportato da Forgat Odv, Interno 5, Asilo Filangieri, Teatro Trianon Viviani, Teatro di Napoli, aperto a allieve e allievi «normotipi» e diversamente abili, con tre cicli – vocazione, ricerca e formazione – interdipendenti, «dove si sta tutti insieme». «Ho sempre tenuto staccata la pedagogia dal momento spettacolare», racconta Iodice, «quest’anno, per fare posto ai nuovi iscritti, abbiamo deciso di fondare una compagnia con gli allievi storici. Pinocchio è sempre stato un simbolo della scuola, un fratello di questi ragazzi, una metafora non solo dell’impossibilità ma della violenza sociale che vuole modellare a burattini. Geppetto è una figura tenerissima ma, come diceva Carmelo Bene – con cui Iodice lavorò come assistente alle scene proprio per il Pinocchio, nda – è anche quello che stupra il legno per fare un burattino a suo uso e consumo». Sul palco, insieme ai ragazzi, i genitori: artisti per amore – chi suona, danza, scrive.

Geppetto è una figura tenerissima, ma come diceva Carmelo Bene è anche colui che stupra il legno per fare un burattino a suo uso e consumo
Tra loro, Giovanna Silvestri, mamma di Federico: suoi i versi, parte della drammaturgia, con cui si apre questo articolo. Il testo è la risultante di un diario di bordo tenuto durante il processo di creazione, iniziato un anno fa con una residenza al Campania Teatro Festival. Raccoglie tracce, interviste, improvvisazioni, paure.

UNA DELLE PIÙ GRANDI riguarda il «dopo», cui è dedicato il capitolo più forte della partitura. «Pinocchio trova Geppetto nella pancia della balena, sperduto come un relitto. Ha salvato solo una candela che presto si spegnerà. “E dopo?”, domanda al padre”. Questa metafora», spiega Iodice, «è molto significativa per un genitore di un ragazzo speciale o straordinario, come dico io». «E dopo?», «e dopo?», «e dopo?». La domanda ancora ci risuona dentro, segue la visione di un lavoro che scava l’umano, portandoci al nocciolo poetico e politico di un teatro che torna ed essere palestra dell’anima, specchio di una comunità.

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