Erri De Luca, in diversi interventi scritti e parlati, in questi anni ha più volte ribadito un concetto che dovrebbe essere di immediata e umana evidenza, a chiunque, ed invece rischia di sembrare uno slogan della «sinistra radicale», qualsiasi cosa voglia dire la definizione politica con annesso aggettivo. Il concetto è questo: in Italia è esistito (e continua esistere, vedi alla voce Lampedusa, Cie ed affini) il reato di «immigrazione clandestina», che in italiano vero dovrebbe tradursi «reato di viaggio». La colpa dunque è il muoversi stesso, il «viaggio» obbligato per scampare la fame che ti ulcera lo stomaco o la guerra, che il cibo non te lo fa neppure più sperare. Reato di viaggio. Brutta storia, per un popolo, il nostro, che conta almeno una popolazione parallela all’estero a causa di «reato di viaggio», nell’ultimo centinaio di anni e spiccioli.

La memoria è corta, la memoria dell’arte, della musica, del teatro per fortuna no. A dare una mano alla memoria del viaggio, e, per una volta, all’ansia di voler ritornare nel proprio Paese, o, almeno, provare a farlo, ci ha pensato Davide Ferrari. Musicista, musicoterapeuta, direttore dal ’92 del Festival musicale del Mediterraneo, ma anche fondatore, nel 2007, della Banda di Piazza Caricamento, uno dei diversi ensemble che in Italia, da nord a sud, hanno dato conto in questi anni di quante energie si potessero mettere in circolo ad aver voglia di mettersi in ascolto dell’ «altro» colpevole di «viaggio». Al Teatro della Corte di Genova Ferrari ha messo in scena Voglio tornare a casa (che ha date in via di definizione per la prossima estate): utilizzando al contempo le fresche energie di membri della Banda, ma anche eccellenti apporti dal mondo delle musiche, della danza, del teatro non occidentale.

Ad esempio quel genio del movimento, della danza, dell’improvvisazione, delle arti marziali che è l’indonesiano Tapa Sudana, storico attore di Peter Brook, Medard Sossa, imponente e flessuoso danzatore voodoo contemporaneo dal Benin, la voce straziante ed ammaliatrice di Lorraine McCauley, autrice irlandese, che nella conclusiva Final Call fa incrociare lingue ed arpeggi in una sorta di esperanto della dolcezza, e tanti altri. La scelta registica prevede pochissimi oggetti in scena: un’altalena, una serie di casse che simulano un treno, una porta.

È un ricordo narrato, danzato, alluso ed eluso assieme sulle «soglie» da attraversare per cercare un ritorno: dove la soglia, il limen continuamente citato dalla voce fuori scena, è anche quello dell’identità in continua re-definizione, quando ti trovi a confronto con un mondo «altro» e per nulla accomodante, la soglia della propria pelle che ci separa e ci unisce agli altri, la lingua in continua mutazione, la necessità di continuare a sognare, nonostante tutto. Più una pulsante, stupita immersione onirica che una vera e propria logica «azione» in quadri conseguenti, dunque. In scena c’è davvero una soglia, una sorta diremmo di «earth gate» che è il ritorno a casa immaginato e continuamente negato (dai fatti, dalle leggi assurde, dalla necessità): sicché la processione finale con i propri poveri oggetti sul capo attraverso la porta, in un viaggio a ritroso, appare più un passaggio verso un Altrove assoluto che un ritorno fisico auspicato.