Roberto Speranza sa che sfidare Renzi è una missione impossibile, è «Davide contro Golia». Ma ci prova perché sa «di non essere solo». A Roma il giovane frontman dei bersaniani annuncia un tour «di ascolto» nel paese. Si parte da Monfalcone, Gorizia, città operaia simbolo della rovinosa sconfitta del Pd renziano, «la rottura col mondo che dovremmo rappresentare». Non è detto che alla fine vada davvero così. E cioè che sarà davvero lui a sfidare Renzi; ma intanto la minoranza dem capitalizza la vittoria referendaria (perché loro hanno votato No) e si prepara all’appuntamento al buio dell’assemblea nazionale di stamattina. Renzi, dal suo ritiro di Pontassieve, non ha fatto sapere cosa ha in mente. Il tempo non gioca a suo favore. Ancora qualche settimana di leadership sbandata e di governo Gentiloni (di cui non a caso Speranza tesse grandi lodi), e nel partito perderà pezzi. Se proporrà un congresso anticipato, da statuto dovrà dimettersi.

Può tentare la via delle primarie del centrosinistra – per questo ha lanciato su piazza l’apposito Giuliano Pisapia – per guadagnarsi la pole position nel voto di primavera. Ma è una strada che rischia di aprire nuove crepe fra i suoi. Non è scontato il gradimento dei gruppi parlamentari. I bersaniani – qui più che al completo, c’è anche l’ex ministro Visco e il sottosegretario Bubbico – tifano per una pausa di riflessione. Chiedono una discussione «vera» nei circoli.

Ma si preparano al peggio, cioè al tentativo di asfaltarli. Le differenze con il renzismo dopo la vittoria del No sono più profonde («Alla base della narrazione del Pd renziano c’è un gruppo di interessi», dirà poi un durissimo Bersani) ma non c’è nessuna scissione all’orizzonte. «Noi ci saremo comunque», rassicura il senatore Gotor a chi glielo chiede.

È tutto esaurito al centro Frentani, ex sede storica della Cgil nel cuore dell’ex rossa San Lorenzo. Orgoglio dem e bandiere di partito, l’esatto contrario di una Leopolda: «Dico a chi ci ha lasciato: tornate a iscrivervi, liberate il Pd, salvate il Pd. Serve una rifondazione del partito democratico», esorta Speranza. Per cominciare chiede di rimettere mano al jobs act, ai voucher e alla ’buona scuola’. In prima fila ci sono i presidenti di Puglia e Toscana, Michele Emiliano e Enrico Rossi, altri due possibili candidati. Ma si produce un fatto nuovo: Emiliano sale sul palco e si mette a disposizione del giovane deputato: «Il gran tour italiano lo facciamo insieme: solo il sabato e la domenica, perché il resto della settimana faccio il presidente della Regione». È lui il mattatore della giornata: ha fisico e energia, parla a braccio, accusa Renzi di «muscolarismo», di «manipolazione della verità», «uno che si racconta le cose a modo suo: decide di vincere un referendum che ha perso, non ha azzeccato la legge elettorale, ha sbagliato la legge sulla pubblica amministrazione, ha paura di andare a votare le leggi sul lavoro».

Diverso, non solo per indole, il tono di Rossi: propone «il coraggio di riparlare di socialismo», di «riprendere la critica al capitalismo», ma difende ancora – e dio sa solo perché – le ragioni del Sì, che ha votato. Chiede il congresso subito, a differenza dei presenti. E soprattutto lascia intendere che non farà il passo indietro in favore di Speranza che pure Emiliano gli chiede. Almeno per ora, dunque, la minoranza Pd resta divisa.

Ma è possibile che il quadro degli equilibri interni – e cioè della forza di Renzi e della debolezza delle minoranze – sia ancora in movimento. È Bersani, che pure tiene per mano il suo allievo prediletto, a incaricarsi di dare un segnale: «C’è l’esigenza urgente, drammatica, di non arroccarsi e di aprire canali di una discussione vera che non abbiamo mai avuto in questi anni. Nel Pd e nel centrosinistra». Qui il ritorno alla coalizione è un cult, e non da questi giorni. In platea c’è una delegazione dell’area ’dialogante’ di Sinistra italiana: fra cui l’ex Pd D’Attorre e l’ex Sel Quaranta. L’esito dipenderà anche dalla nuova legge elettorale, che prima o poi arriverà. Nel frattempo Bersani ricompone un programma di «riformismo un po’ radicale», eco di quello di Italia bene comune, la coalizione sconfitta nel 2013: «welfare», «ruolo diretto e indiretto dello stato negli investimenti», «messa in sicurezza del paese». E diritti del lavoro: «Se non vogliono rifare l’articolo 18 facciano almeno il 17 virgola».

L’ex segretario loda Speranza («è molto bravo») ma sa bene che serve «un’alternativa vera nel Pd»: «Non bastano aggiustamenti millimetrici» al «blairismo rimasticato», dice, «non servono abiure ma non basta neanche mettere una scorza di sinistra nel cocktail di questi ultimi tre anni». C’è chi ci legge un appello al ministro Andrea Orlando, uno dei leader dei Giovani turchi, dato in rotta di allontanamento dal segretario.