Viaggiare, come avverte subito Tom, professione fotografo, induce un equilibrio paradossale tra movimento del corpo e stabilità mentale, che permette di osservare da vicino la propria psiche, scandagliarne le zone d’ombra, elaborare le immagini della memoria più viva, magari le stesse suggellate dalle vecchie fotografie di famiglia. Al crocevia affollato di tracce così diverse, nella stretta dolorosa dei rimorsi e delle perdite, Tom – protagonista di Nella tormenta di David Park (traduzione di Manuela Faimali, Bollati Boringhieri, pp. 176, euro 16.50) – sembra chiedersi a ogni imprevisto come sarebbero potute andare le cose altrimenti. Guida sulle insidiose strade ghiacciate dell’Irlanda del Nord, della Scozia e dell’Inghilterra, quasi paralizzate da nevicate eccezionali.

Sta andando a prendere suo figlio, Luke, costretto dalla febbre nella camera di uno studentato universitario e impossibilitato a partire dalla cancellazione dei voli. Vuole riportarlo a casa per Natale, dove potrà essere accudito, guarire e passare le feste con una famiglia che si intuisce ferita, e proprio perciò visceralmente unita.
Tom è persona gentile e generosa, non esita ad aiutare chi incontra durante il viaggio e nei pensieri torna spesso a Lorna, sua moglie, che ama in un modo premuroso e al tempo stesso rispettoso. Prima di tutto, però, è un padre, e in quanto tale si interroga, ininterrottamente, stringendosi al desiderio quasi ossessivo di proteggere i suoi familiari dai pericoli e soprattutto da una sofferenza che non riesce a nominare, nemmeno quando sinestesie e coincidenze fra il paesaggio innevato e quello emotivo lasciano trapelare un profondo senso di colpa e la morsa di un trauma recente.

Nella tormenta è un’opera coinvolgente, solida nell’impianto e matura nello stile. Malgrado l’eco di autori più sperimentali come Mike McCormack e Clare Kilroy, la scrittura di David Park, autore nordirlandese già noto per la raccolta di racconti Oranges from Spain e per i romanzi The Healing e The Truth Commissioner, è sempre vigile, trasparente. Non a caso, anche la struggente messa in scena di una catarsi finale non pretende se non di mostrare l’insopprimibile capacità di reazione che l’amore per i figli riesce a generare, nonostante l’angoscia in cui Tom è sprofondato in seguito a una tragedia che non ha saputo evitare.

Lo spettro del dramma prende corpo in alcune, furtive allucinazioni, assumendo a volte le sembianze dell’altro figlio, Daniel: concessioni repentine e destabilizzanti alla necessità di gridare le proprie responsabilità, svelare un segreto atroce che tale deve restare: «Ho già perso troppo», pensa Tom, «non posso rischiare di perdere ancora qualcosa». In lui combatte il bisogno quasi autodistruttivo di chiedere perdono, e l’impossibilità di farlo, sebbene abbia capito come tenersi stretta la verità sia «corrosivo». Come buona parte della produzione letteraria di Park, anche questo romanzo sembra fornire correlati simbolici alla battaglia dei ricordi, delle responsabilità e della riconciliazione che accompagna e pungola la comunità nordirlandese e i suoi scrittori in questa delicata fase di superamento dei troubles, il conflitto settario che per molti decenni ne ha lacerato ogni tessuto sociale, compreso quello familiare.