La riedizione di Twin Peaks è un’apparizione miracolosa, un fenomeno paranormale sui palinsesti mondiali. La prima serie di David Lynch e Mark Frost rivoluzionò una televisione ormai praticamente scomparsa, quella dei network, scardinando i programmi generalisti della ABC e sancendo in qualche modo il suo declino, che avrebbe portato all’ecosistema dei mille canali. 25 anni dopo, la nuova serie produce la stessa spinta eversiva nell’«età dell’oro» della TV. In un momento in cui «innovazione» è spesso uno slogan dell’ufficio marketing, Twin Peaks preme sui confini della meta narrazione, un’opera buñueliana che inietta una voce autoriale aliena nella formula seriale.

Nella Hollywood dei blockbuster e dei supereroi, David Lynch è un regista emarginato come tanti autori della sua generazione, orfani dell’innovazione anni ‘70 e della sperimentazione artistica delle avanguardie europee che li ha nutriti. Lo testimoniano i finanziamenti reperiti sempre lontano da Hollywood, soprattutto in Francia, per gli ultimi film, da Lost Highway a Mulholland Drive, oggetti troppo indigesti di gran lunga per gli studios.

Inland Empire, l’ultimo film (coproduzione franco-polacca), è ormai del 2006. Da allora Lynch ha curato siti internet, prodotto quadri, inciso dischi nello studio di registrazione della sua casa sulle colline, ad un tiro di schioppo (per forza) da Mulholland Drive.

Di Lynch in particolare ricordo l’elogio commosso ed accorato di Fellini quando raccoglievo testimonianze hollywoodiane sulla sue morte. L’occasionale avvistamento in giro per la città– in qualche vernissage, galleria d’arte o dal ferramenta, dove coltiva la passione intensa per bricolage e falegnameria; qualche anno fa al funerale di Dino De Laurentiis nel duomo di Los Angeles, ultimo omaggio al produttore di Dune e Blue Velvet….

Ma la realtà è che una delle voci più originali del cinema americano tace da una decina di anni. Fino ad oggi. Un ritorno senza compromessi come autore, regista e direttore regionale Gordon Cole del FBI, superiore dell’agente Cooper, duro d’orecchi e ghiotto di donuts

Le prime puntate sono andate in onda, sta seguendo le reazioni del pubblico?

Su questo temo di non potervi essere utile nemmeno un po’. Salvo dire che sono solo le prime ore, quindi un’opera incompiuta. È da vedere e seguire fino in fondo. A quel punto si può valutare.
Spera che la nuova serie possa avere lo stesso impatto della prima?

Non ho idea di quello che succederà. D’altra parte fu così anche la prima volta. Non è possibile conoscere l’effetto di un’opera fin quando non è al mondo. Fu una grande sorpresa come la prima serie venne amata in giro per il mondo. Molti si chiedono ancora come la storia di una piccolo cittadina del Northwest abbia potuto piacere così ai Giapponesi, metti, o ai Francesi, fu un fenomeno interessante e fantastico – una magica combinazione di elementi.

Quindi ha continuato a pensare a Twin Peaks?

Ho sempre ammesso di amare il mondo di Twin Peaks, vi ho pensato spesso con affetto in questi anni. A volte per immaginare cosa potessero star facendo ora quei personaggi. Ma non ho seriamente pensato di riprendere in mano la storia fin quando Mark Frost non mi ha invitato a cena da Musso & Franks (su Hollywood Boulevard, ndr.) circa cinque anni fa. Dopo 25 anni io sono sempre la stessa persona. Amo molte cose: lavorare il legno, dipingere, la musica e il cinema. Rimettermi al lavoro con la troupe e le cineprese e il suono e costruire questa cosa assieme a un sacco di gente bravissima è stato entusiasmante. Sul set di questo Twin Peaks ho scoperto i «cronuts»: è una nuova invenzione, un incrocio fra un donut e un croissant. Sono incredibili.

Lei è anche un artista. Trova un affinità fra la pittura e le riprese di un film?

Dicono che il cinema metta assieme sette arti, scrittura, musica, pittura…molte altre cose. Ma io sono arrivato al cinema attraverso la pittura. Ero all’accademia di belle arti della Pennsylvania, seduto al mio cavalletto che lavoravo ad un quadro di un giardino di notte ed osservavo il mio quadro e d’improvviso ho sentito da quel dipinto come un vento. Ho visto il quadro che cominciava a muoversi e mi sono detto ‘Toh, un quadro in movimento’. Così ho fatto un film a passo uno, un loop di sei uomini che si sentivano male, il mio primo film che durava un minuto. Tutto è cominciato con un quadro.

Dove trova ispirazione?

Mi piace acchiappare le idee e come dico sempre è l’idea a dettare tutto. Potresti stare seduto e ti viene l’idea di andare a comprare del caffè. È un idea. O magari te ne stai seduto e ti viene un’altra idea. Le idee dettano tutto. Sei seduto su una sedia e ti viene l’idea per una sedia nuova. E ti senti così trasportato che vai a trovare del legno, vai in officina e cominci a costruire quella sedia. E come la costruisci? Ti ricordi l’idea …questo va qua e quest’altro qui.. ed è bellissima. E magari quando è finita qualcuno potrebbe dire che è fabbricata in un determinato stile, ma tu non stavi cercando di seguire uno stile, volevi solo realizzare la tua sedia, concretizzare la tua idea.

E le idee da dove vengono?

Non so cosa le inneschi, mi vengono. Non me la sento davvero di attribuirmene il merito, arrivano dall’esterno. Entrano nella mente cosciente e si rivelano. Sono come pesci. Uno chef non crea il pesce si limita a cucinarlo – con le idee è lo stesso. Arrivano e non sai bene come, ti appaiono in mente e si impadroniscono della persona a cui si manifestano. Tutto qui. È come pescare idee. E io dico sempre che se vuoi avere idee usa il desiderio come un esca sull’amo, e più desideri, più ti concentri. Desideri, ti concentri ed ecco che ti viene un idea. E quando l’hai presa è come pescare un pesce – ma è solo un frammento di qualcosa di più grande; un pesce piccolo che diventa esca e presto arrivano altri pesci, nuotando. E presto hai un sacco di idee da cui emerge una storia.

Cosa può dirci dell’uso della musica nei suoi film?

Per me il cinema è, e sempre sarà, immagini e suono mosse assieme attraverso il tempo. A volte velocemente, a volte lentamente – come la musica. Ci sono molti, moltissimi elementi che compongono una storia nel cinema ed è essenziale curarli tutti. Se fatto correttamente l’insieme funzionerà. Il cinema somiglia molto alla musica, ha diversi movimenti –alcuni molto forti, altri silenziosi. È essenziale che la musica entri e si fermi al momento giusto. Oggi con gli iPhone e tutti gli altri aggeggi, il suono soffre terribilmente. La gente crede di aver visto un film ma in realtà non l’hanno visto così come era inteso. Vorrei che la gente lo vedesse con ottime cuffie e più vicino possibile allo schermo per avere una chance di entrare dentro al mondo del film. Ci sono così tante distrazioni…basta una macchina che passi fuori dalla finestra per infrangere l’illusione.

Lei non ha un telefono cellulare?
Non mi piacciono i telefonini. Amo i vecchi telefoni, il loro squillo. I telefoni oggi sono solo un disturbo: ogni volta che suona sai già che è per te, è un tormento. Non mi piace neanche la posta elettronica – il mondo è pieno di interruzioni.

Torniamo alla musica…

È stato Angelo Badalamenti a portarmi nel mondo della musica. Da piccolo suonavo la tromba, e avrei continuato se non fosse che al liceo qui se suoni la tromba devi andare alle prove per la banda musicale prestissimo la mattina per suonare alle partite di football. Così addio tromba (ride). Angelo per lavorare preferisce avere delle parole di guida, così ho cominciato a scrivergliele. E da cosa è nata cosa. Non sono davvero un musicista, anche se ho scritto della musica, ma ho un infinito rispetto per i musicisti, Angelo è decisamente uno di loro. Secondo me i musicisti sono come bambini, sono felici. E quando suonano assieme diventano un unità unica, una cosa sola nel mondo di quel particolare sound. È meraviglioso.

C’è chi stenta decifrare le sue storie….

Non credo sia un esercizio utile. Non si può riesumare un autore morto per chiedergli del libro che hanno scritto, leggi il libro e lo capisci da solo. È questo il bello, vedere le cose come un detective e arrivare alle proprie conclusioni, è una cosa molto bella. Siamo tutti diversi e vediamo le stesse cose di tutti gli altri e cerchiamo di capire ognuno a modo nostro, come nella vita.
Come 25 anni fa, le scene che suscitano più domande sono probabilmente quelle in quella stanza con le tende…

È quella che chiamiamo la «stanza rossa». Ai tempi del pilota del primo Twin Peaks ci venne richiesto di fornire un finale alternativo. Nel caso la serie fosse stata un fiasco avevano in programma di distribuire il primo episodio in Europa in forma di lungometraggio. Così continuavano a dirmi «David devi assolutamente girare anche un finale». Ricordo che stavamo montando alla Consolidated Film Industries, su Seward street, erano le sette circa una sera d’estate. Avevamo finito per la giornata e siamo usciti dalla sala montaggio. Stavano parlando nel parcheggio con Dwayne Dunham e Brian Berdan – il montatore e l’assistente – e mi sono appoggiato al tetto di una macchina. Era meravigliosamente tiepido, non troppo caldo, solo tiepido. Stavo appoggiato e mi è venuta la stanza rossa, ogni dettaglio li in un istante. Sono subito andato a scriverla e poi l’ho fatta vedere a Mark (Frost, co-sceneggiatore ndr.). Abbiamo fatto qualche modifica e via. E 25 anni dopo rieccoci in quella stanza.

Cosa l’affascina dei doppelgangers?

Non saprei cosa. Non ci penso molto. Mi vengono delle idee e spesso c’è questa dualità. È una cosa cosmica. Dualità e unità. Qualcosa nell’aria che evoca questi opposti.

Oltre al suono i suoi film – e questa serie – contegono silenzi a volte lunghi silenzi…

Dicono che nel trascendente, nel campo unificato, ci sia un silenzio infinito accanto ad un infinito dinamismo. Questi due opposti esistono, coesistono. Io ho uno studio di registrazione e quando chiudo la porta e le macchine sono spente è così insonorizzato che c’è completo silenzio. Tuffarsi dentro ad un silenzio così è una incredibile esperienza. È talmente potente e assente dal nostro mondo così rumoroso. La base per l’emergere di ogni suono.

Cosa pensa dei fim attualmente prodotti a Hollywood?

Non direi che siamo in un buon momento per il cinema, non per esempio come quello attraversato dalla nouvelle vague o dal cinema italiano degli anni 60 che in America è stata l’apoteosi dei cinema d’essai, I piccoli cinema allora facevano più affari di quelli commerciali. Era stupendo, la gente sperimentava davvero con nuove forme di cinema. Poi è cambiato. Oggi nei cinema ci sono film di massa e commerciali. Ma potrebbe sempre tornare. Quei film in parte vengono fatti ancora anche se di solito durano una settimana in sala a New York o Los Angeles prima di finire su DVD. Quindi ovvio c’è una certa tristezza. Ti viene un idea e la visualizzi per un cinema ma poi ti rendi conto che la maggior parte della gente non la vedrà mai in sala. È un pò deprimente.

Lei che film guarda oggi?

Non sono veramente uno che guarda molti film. Amo farli ma non ne vedo poi molti. E nemmeno la TV, a parte a volte le notizie. Da un po’ sto vedendo un canale che si chiama Velocity Channel dove fanno vedere restauri e modifiche di automobili. Ho imparato moltissimo: il lavoro di carrozzeria che fanno! E il motore e la tappezzeria! Sono dei veri artisti e alcune di queste auto sono vere opera d’arte. Affascinante.

Pensa di tornare a girare un film?

Certo. Se mi venisse un’idea. Vede per fare un film – o qualunque altra cosa – serve un’idea entusiasmante abbastanza da farti alzare dalla sedia e metterti al lavoro. Se mi venisse l’idea così, certo che lo farei.