The Whistleblowers è il nuovo album del trio Heartland, che, oltre suonare come jazz di qualità, compie indirettamente una profonda riflessione sullo stato di salute dell’attuale jazz europeo. Benché accreditato ai tre – David Linx (voce), Paolo Fresu (tromba), Diederik Wissels (pianoforte) – è di fatto opera del cantante belga, almeno per quanto concerne idea e scrittura dei brani in scaletta: a parte l’unica cover (Le tue mani, brano dei ’60 scritto per Julia De Palma ma resa celebre da Mina ) è lui a comporre parole (tutte) e musica (sostituito talvolta da Wissels) dei dieci brani registrati assieme a Christophe Wallemme (basso), Helge Andrea Norbakken (batteria) e il Quartetto Alborada (archi). La band si muove qui tra minimalismo e improvvisazione, musica classica e forma-canzone, proponendo un jazz europeo attorno al quale ruota la discussione con David Linx che, a sua volta, può vantare un’infinità di esperienze trasversali sul Vecchio Continente – fondamentale la sua Porgy And Bess con la portoghese Maria João – accanto ai migliori solisti e bandleader francesi, tedeschi, fiamminghi, britannici, ungheresi, italiani.

David, un nuovo capitolo del trio belga-olandese-italiano con The Whistleblowers Analogie e differenze con il primo album di tanti anni fa?

È una gioia molto grande per noi tre incontrarci di nuovo dopo Heartland (2001), ma se abbiamo trovato il tempo per dargli un seguito con Whistleblowers, è anche perché non abbiamo mai smesso di lavorare insieme in altre situazioni musicali. Nel corso degli anni in qualche modo non ci siamo mai lasciati.

Che tipo e che livello di difficoltà creativa avete incontrato nello scrivere canzoni in fondo rispettose di classiche strutture formali?

Il grado di difficoltà è sempre lo stesso, vale a dire tentare di comporre buona musica assieme a belle parole. Abbiamo capito subito che questo nuovo album sarebbe stato molto diverso dal precedente, semplicemente perché sono trascorsi quindici anni, in cui, nel frattempo, ci siamo arricchiti di tante cose. Alla fine penso insomma che i nostri due cd non siano uguali fra loro; e invece che difficoltà parlerei piuttosto di felicità e di eccitazione.

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L’unico pezzo italiano è la cover de Le tue mani, come ti sei rapportato a livello di fonetica del testo? E come ti sei giostrato con le parole?

Come europeo e avendo viaggiato molto, le lingue sono come una seconda natura per me. Ho catturato rapidamente i suoni di alti idiomi, al punto che a volte la gente non sa dove vengo o non crede che io non sappia parlare la lingua di alcune canzoni che canto. Ascolto diverse volte le versioni originali dei pezzi che scegliamo e mi impegno a lavorare anche molto sulla canzone, fino a quando sento che riesco a padroneggiare la pronuncia. Si tratta di una sensazione fisica che mi sono sentito addosso con arabo, portoghese, spagnolo, tedesco e anche cinese. Inoltre, ho girato così tanto l’Italia in questi ultimi vent’anni che il mio subconscio ha pienamente assorbito il suono della lingua.

Si può parlare del disco e del gruppo in termini di jazz europeo?

Non lo so, non penso mai in realtà a questo problema. Io sono sia un prodotto culturale europeo sia il risultato di una certa ’educazione’ afroamericana. Ho frequentato da ragazzo James Baldwin, Nathan Davis e Kenny Clarke in particolare, cosa che in qualche modo mi ha confortato, per poter essere in pace con me stesso e diventare una persona multi-culturale al di là del colore della pelle.

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Ma ti sei mai posto il problema o la questione del jazz in Europa o d’Europa?

È un discorso molto complesso. Per sintetizzare posso dire che ciò che io, Paolo, Diederik facciamo insieme o separatamente è davvero un riflesso di una certa Europa, ma credo che senza l’influenza della scuola americana forse non potremo mai sapere in che modo siamo europei.

Visto che hai lavorato assieme a diversi musicisti (sia continentali sia americani), hai riscontrato, per sottrazione o differenza, una precisa identità nel jazz europeo odierno?

La discussione sull’identità è molto più pericolosa ed esplosiva rispetto a prima, ma non credo che l’Europa esista come vogliono farci credere; non c’è nemmeno un sogno, è quasi solo una realtà economica e finanziaria per un cartello assai ricco che alcuni ritengono il più potente. C’è una certa espressione di jazz europeo che si è imposta con la creazione di etichette anche molto belle, come Ect, Act, Enja, Harmonia Mundi, eccetera, che, in ogni caso, per alcuni, possedevano la volontà di mostrare qualcosa di diverso da quello che il mondo aveva deciso che fosse il jazz.

Sei belga come Django Reinhardt, il primo jazzista veramente europeo; nella storia del jazz degli ultimi trent’anni esiste per te qualcuno che sia in grado di raccogliere la sua lezione, non nello stile (c’è Biréli Lagrène in questo senso), ma come arte diversa da quella americana?

Credo che il ruolo di Django oggi sarebbe rappresentato da molte più persone, per il semplice fatto che oggi ci sono tanti più musicisti con i mass media sempre onnipresenti. Non posso indicarne uno solo oggi. Ogni paese in Europa nel jazz ha i propri rappresentanti così fenomenali che sarebbe difficilissimo anche solo stilare un elenco parziale.