Molto bello, molto difficile. È quanto viene da dire davanti alla coraggiosa impresa di presentare in italiano Fra parentesi di David Jones (a cura di Fabio Pedone, Mondadori «Oscar moderni», pp. 223, € 13,00). Un poema in prosa fra i più intricati del Novecento, una storia di guerra a lacerti e frammenti bellissimi e incomprensibili. David Jones era soprattutto un pittore e grafico inclassificabile le cui opere si possono ammirare a Kettle’s Yard, il museo privato di Cambridge, accanto a Gaudier-Brzeska e altri avanguardisti più o meno poundiani. Ed eliotiani, visto che Eliot pubblicò Fra parentesi nel 1937 lodandolo e paragonandolo ai Cantos e (più accuratamente) Finnegans Wake. Ma niente paura, Fra parentesi è una cronaca che procede dall’arruolamento del goffo gallese Ball (cioè Jones) in Inghilterra al fronte francese allo scontro col nemico, sicché, sì, è leggibile, non è «solo» una sterminata serie di giochi di parole come il Wake. D’altra parte è una foresta di simboli e citazioni, per cui la guerra moderna, presentata efficacemente con il suo particolarissimo gergo (il «rhyming slang» per cui «china» sta per china-mate che rima con mate, sicché tu dici china per dire mate cioè compagno), si sovrappone alle guerre della leggenda, anch’esse però fatte di corpi, luoghi e parole.
Una pacchia per i linguisti e i lettori accaniti, che magari si muniranno del testo inglese per verificare le acrobazie del traduttore davanti a tanti ostacoli ed entrare nell’aura sonora del libro, la foresta incantata di Orlando e Rolando e Shakespeare (presente con Enrico V). Frammenti di ballate, stupende citazioni da Hopkins («Starlight-order», «l’ordine delle stelle», titolo della terza delle sette parti che ahimè si fanno via via più lunghe). E citazioni del «più grande poeta inglese del nostro tempo» (p. 211), frase con cui Jones restituisce il complimento al suo complice editore, cioè Eliot, citando «Sweeney fra gli usignoli» («Quando Agamennone gridò ad alta voce»), poesia del 1920 che era anche piaciuta a Yeats, irlandese fantasioso quanto fantasioso e ispirato è il bardo David Jones.
Una tela di suoni e ricordi personali
Che seguendo l’esempio di Eliot ci regala trenta pagine di note non pedanti, che sono un piccolo mondo di lingue e letture. Cosa un solitario reduce riprendendosi da un grave esaurimento nervoso riesce a comporre come su una tela di suoni e ricordi, anche smaccatamente personali. Così parla della luna che illumina una marcia: «quando gli uomini gemono per lei, loro che avanzano incespicando, questi assegnati all’imboscata la lodano, come ausiliatrice; come ladroni nella caverna su una collina di Mawddwy – la terra desolata lontano fino all’inglese Maelor; ragazze in boccio dentro fortezze dirute hanno solo mastini di guardia – come la mademoiselle a Croix Barbée» (p. 51).
E nella simpatica nota: «Stavo pensando alla Christabel di Coleridge, e l’avevo associata con un bel cane che ho visto una volta e con una ragazza francese in una fattoria coperta di sacchi di sabbia, fuori la strada di la Bassée-Estaires» (p. 198). E infatti (lampadina!) Christabel è protetta da una mastiff bitch che ringhia quando arriva la bella strega Geraldine. Poche righe sopra, sempre sulla luna, «I want you to play with / and the stars as well», mi ha fatto scoprire grazie alla nota il testo originale di una ninnananna che sapevo da sempre: «Loola loola loola loola Bye-bye, / I want the moon to play with / And the stars to run away with, / They’ll come if you don’t cry».
Un libro personale su un evento mondiale chiede come poesia una lettura personale, le scoperte nell’intrico dei linguaggi. Come nota Pedone nella istruttiva e partecipe introduzione, David Jones non giudica o valuta conflitto, gerarchia, incapacità eccetera come i coevi e più noti (a volte celebrativi, più spesso dolenti) poeti della guerra. Dipinge le frasi, registra come su un disco prezioso. È il mondo vissuto, forse illuminato dal suo cattolicesimo sacramentale, che però sa ben poco di parrocchia, è tutto fantasia e invenzione, un immenso lascito in cui spaziare e cantare.
Una guerra perfettamente sanitaria
Una sepoltura: «Da questo rastrellare nel fango ecco fetori strani, lievitati da lunga decomposizione; a mescolare questa argilla con quella più preziosa, paziente del battesimo; furon-cadaveri corrotti da sostanze chimiche. Gli han fatto un brutto servizio – povero Johnny… Ogni notte nuovamente degradato come cadavere di traditore, là dove le sue batterie pesanti infuriano e brutalizzano; ogni giorno riesuma la brutalità di ieri; templi dello Spirito Santo che fanno sterco. Chiaroimbiancano tutto questo sepolcro con cloruro di calcio in polvere. È una guerra perfettamente sanitaria…». Un po’ di sarcasmo, e rapido mutamento di registro alla Eliot, ma soprattutto racconto, registrazione, pietà. Fra parentesi, un classico da scoprire per conto proprio.
E un’operazione meritoria per chi l’ha varata e conclusa. Il solitario Jones con la sua immancabile sigaretta e le sue iscrizioni latine. Quest’anno una delle cartoline di Natale riportava una sua Natività e scritta inconfondibile: «BY. THE. MYSTERY. OF. THY. HOLY. INCARNATION. DELIVER. US». In rete ho trovato un poeta scozzese di oggi, Robin Robertson, che legge con belle consonanti martellate il brano sul ratto che chiude la Parte III: «scrut, scrut, scrut» («sgrat, sgrat, sgrat» nella traduzione). «Si sta comodi quanto basta» («It’s cushy enough»). È l’umorismo stoico delle trincee. E da notare la chiusa della dedica del poema meraviglioso: «ai combattenti delle prime linee di parte nemica che condivisero le nostre sofferenze e contro cui ci trovammo a opporci per disgrazia» (p. 13).