Il grande Apple Tree del 2019, con i rami carichi di fiori bianchi che svettano verso il cielo, avanzano verso di noi, scendono verso terra, non segue le leggi della prospettiva perché l’invenzione del paesaggio è la scoperta del margine che lo definisce e ne fa un quadro. Nel dipinto David Hockney non ha creato un paesaggio, ha fatto il ritratto di un albero che troneggia, solo, al centro, e nella sua maestosità occupa tutto lo spazio. Fin dall’inizio del suo lavoro non ha esitato a utilizzare ogni tipo di tecnica per creare immagini. Dipingendo e trasfigurando il visibile non fa differenza tra pennello, matita, macchina fotografica, computer, fax, videocamera, stampante laser e ora addirittura l’iPad. Perché, dichiara, tutte le immagini sono artificiali dal momento che qualcuno ne ha stabilito i bordi, ritagliandole dal contesto ha «redatto» un altro mondo.

In polemica con Walter Benjamin, per lui la riproduzione non è mai meccanica, anche la copia è un’interpretazione. Nato nel 1937 a Bradford nello Yorkshire, comincia a dipingere fin da ragazzo. Si laurea al Royal College of Art di Londra. Nel 1961 partecipa alla mostra Young Contemporaries, dove fa la sua comparsa il pop britannico, con Derek Boshier, Allen Jones, R.B.Kitaj e Peter Phillips, tutti ex studenti del Royal College. In quel periodo il suo maestro ideale è Picasso, fino a assimilarne l’opera e a raffigurarsi in sua compagnia in Artist and Model. Nel 1964 si trasferisce a Los Angeles, da cui si allontanerà per soggiorni in Europa e viaggi in Marocco, Giappone, Sudest asiatico, Cina. Comincia a scattare un gran numero di fotografie soprattutto per assicurare modelli e particolari ai suoi quadri. Fino a quando, accanto alla pittura, alla scenografia e ai costumi per il teatro, la fotografia diventa per lui una nuova forma di espressione.

Tra il 1982 e il 1984 vi si dedica completamente perché gli consente di riflettere sui modi di «fare cubismo», di continuare la rivoluzione artistica sopraffatta dal cinema che sostituendo l’orizzontalità, propria della pittura, con la verticalità, arresta il tempo. Confessa di amare La Règle du jeu di Jean Renoir perché nessun personaggio sta fermo al suo posto ma si incrocia con gli altri come le palle di un biliardo. Così la sua decostruzione e ricostruzione ossessiva con la Polaroid SX-70 è in Still Life Guitar un omaggio a Braque e a Picasso. In sessantatré frammenti, una chitarra è esposta nella sua custodia aperta rivestita di blu accanto a un vaso con fiori rossi, un vassoio con frutta di plastica, una lattina di birra, uno spartito musicale, una busta gialla. In Yellow Guitar Still Life, quaranta polaroid dai toni ocra, marron e neri, la chitarra è appoggiata su una sedia di vimini con bottiglia di vino, copia del Los Angeles Times, pomodori, pere, limoni, rape lucidissime nella loro falsità. Le singole immagini sono assemblate come in un puzzle che non rispetta una visione naturalistica ma segue il ritmo del pensiero dell’artista.

Hockney non ha mai nascosto la sua omosessualità e alcuni dei suoi dipinti hanno come oggetto l’amore tra uomini. Nel 1963 si reca a New York, dove conosce Andy Warhol e anche Henry Geldhazer, curatore del Metropolitan Museum of Art, che sarà un soggetto ricorrente dei suoi quadri. Quando visita Los Angeles, sente che la città incarna l’immagine sessuale della California diventata in quegli anni l’epicentro dell’omosessualità moderna. La città degli angeli ha bisogno di un artista che dipinga i suoi colori, le strade illimitate, le piscine e i corpi abbronzati dal sole, «Le persone non sapevano neanche come fosse fatta la città. Pensai che un posto del genere avesse bisogno del suo Piranesi e così eccomi qua», dichiara. Nell’estate del 1966 mentre insegna all‘Ucla, l’Università della California, incontra Peter Schlesinger uno studente d’arte che posa per ritratti e disegni. Avrà con lui una lunga relazione.

Se per gli studenti dell’accademia d’arte un foglio quadrettato supporta le proporzioni del corpo umano, per Hockney i quadrati delle singole foto possono servire da griglie per una rivisitazione delle diverse correnti artistiche. La grata non è solo un allargamento della visuale, ma diventa la soglia, la distanza tra chi guarda e quello che si vede. Come la struttura a caleidoscopio che moltiplica i punti di vista e fa entrare l’autore nella fotografia assieme al suo autoritratto. Al tavolo da lavoro, il modello in vestaglia azzurra e calzini bianchi disteso sul divano, il quadro alle sue spalle con la stessa composizione, l’autore seduto davanti alle tre raffigurazioni precedenti in un gioco che si ripete all’infinito in Making Model with Unfinished Self Portrait. In uno scavo analitico che tende narcisisticamente a una confessione pubblica, è un procedimento di rara generosità intellettuale propria dell’arte contemporanea con cui chiarisce a se stesso la sua poetica e insieme la mette a disposizione dell’osservatore. Fa partecipare a un’avventura creativa in cui si è dentro ma allo stesso tempo fuori, come se le divisioni delle singole fotografie implicassero sì un’apertura maggiore, ma come i riquadri delle finestre si frapponessero tra noi e gli interni.

Questo non succede con le ricorrenti immagini di piscine dall’acqua di un azzurro intenso e il fondo istoriato di grandi virgole bianche e blu. Lo stato fluido dell’acqua esprime al meglio l’armonia tra uomo e ambiente. Si è immersi e circondati, il tempo e lo spazio si fondono, ci si può muovere in uno orizzonte insieme delimitato e infinito perché in quel momento è tutto il mondo. I margini sono stabiliti, sono i limiti della piscina, ma entro questi limiti il nuotatore nella sua nudità si sente libero e felice. Le piscine, altrettanti momenti di intimità dedicati ai compagni Peter Schlesinger e Gregory Evans, non sono soltanto uno studio sul movimento e la simultaneità, in un omaggio cha va da Eadweard Muybridge a André Kertész, ma penetrano più a fondo nel regno delle origini da dove iniziano tutti i viaggi.

Quando nel 1967 in Gran Bretagna viene finalmente depenalizzato il reato di omosessualità, Hockney torna a casa, ma non vi si ferma a lungo. Fa numerosi viaggi, di cui molti in Francia. Nel 2018 quando è a Honfleur in Normandia, si reca nella vicina Bayeux per ammirare l’arazzo della Contessa Matilde. Intessuto tra il 1066 e il 1082 dai monaci dell’abbazia di Sant’Agostino, è lungo settanta metri. Celebra attraverso un’incalzante narrazione la conquista dell’Inghilterra da parte dei Normanni. Lo ama per la particolare sintonia con i kakemono cinesi che, completamente privi di prospettiva, si srotolano davanti all’osservatore senza ombre in una concezione dello spazio percepito lentamente come in una passeggiata.

Nella mostra «Ma Normandie» alla Galerie Lelong di Parigi, prolungata dopo il lockdown fino al 27 febbraio e ora visitabile online, Hockney, che si è stabilito con il compagno Jean-Pierre Gonçalves de Lima a Rumesnil, in una grande fattoria completamente ristrutturata, vuole cogliere a trecentosessanta gradi tutte le immagini che stanno attorno alla casa. Ha fretta perché quello che gli interessa è la primavera e i fiori sbocciano uno dopo l’altro e poi sfioriscono.

Comincia a disegnare su un album giapponese acquistato a Amsterdam che si apre a fisarmonica. Comincia il 4 marzo e si sposta tutto attorno alla casa per finire il 16 marzo, perché la primavera dura in Normandia sei settimane. Per tutto il 2019 continua a visitare mostre a Parigi, Londra, Amsterdam. All’arrivo del lockdown si trova a Beuvron, dove è costretto a fermarsi. Fino a quando? Veloce nel dipingere, irrequieto nella vita, l’ottantreenne artista resterà finché non avrà scoperto tutti i paesaggi e i fiori dei dintorni: «Amo i fiori, amo dipingere i fiori. Dicono che dipingere i fiori non è più di moda, non si fa più. Ma quello che dipingo è la vita. E forse la vita è passata di moda?»