Alla sua terra David Goldblatt, nato a Randfontein, Sudafrica, nel 1930 e scomparso ieri a Johannesburg, era tenacemente legato. Amava respirarne gli odori, catturarne i colori e soprattutto le variazioni della luce, magari mentre guidava il camper negli orizzonti sconfinati del Sudafrica. La luce, del resto, è l’elemento a cui ha affidato la sua scrittura. Quanto ai grandi paesaggi che ha fotografato – anche quelli a colori realizzati tra il 1999 e il 2011 – inclusa la serie Intersections (2005) – alla declinazione naturalistica associano sempre un forte imprinting sociale che poi è, fin dagli esordi – iniziò a fotografare nel 1948, anno in cui venne formalizzata l’apartheid -, il grande movente di tutto il suo lavoro.

LA NATURA, quindi, come riflesso della politica, in cui l’approccio estetico restituisce l’urgenza di un contenuto etico. Per Goldblatt, terzo figlio di Eli e Olga Light – entrambi sfuggiti alle persecuzioni antisemite in Lituania, alla fine del XIX secolo, ed emigrati in Sudafrica – la fotografia è stata qualcosa in più di un linguaggio da condividere tra pochi, come i suoi genitori quando parlavano tra loro in yiddish, magari per salvaguardare i figli dai racconti dolorosi del loro popolo.

È CERTAMENTE anche la testimonianza di un’epoca, ma sempre con la consapevolezza delle sue potenzialità di arma, voce, slogan, atto di protesta e denuncia. Considerato il padre della fotografia documentaria sudafricana (a pari merito con Santu Mofokeng), è stato il primo autore sudafricano a esporre con una personale al MoMa di New York (1998). Ha partecipato a Documenta 11 (2002) e Documenta 12 (2007) a Kassel, alla 54a Biennale di Venezia (2011) e a numerosissime altre mostre internazionali (inclusa la retrospettiva Structures of Dominium and Democracy conclusasi recentemente al Centre Pompidou di Parigi, la collettiva Art/ Afrique alla Fondation Louis Vuitton di Parigi nel 2017 e la personale Ex-Offenders alla Pace Gallery di New York nel 2016), conseguendo prestigiosi riconoscimenti come l’Hasselblad Award (2006), l’Henri Cartier Bresson Award (2009), e l’Icp Infinity Award (2013) nonché, tra gli altri, il Krausz Book Award 2011 per il bellissimo libro TJ. Johannesburg. Doppia negazione (pubblicato da Contrasto nel 2010), cofanetto in due volumi che raccoglie le fotografie di Goldblatt, insieme al romanzo dello scrittore sudafricano di origine croata Ivan Vladislavic. «Non ho bisogno di andare in vacanza», affermava David Goldblatt con quei suoi occhi azzurri che s’illuminavano. «Il mio lavoro è una vacanza». Si riteneva fortunato perché la vita gli aveva dato l’opportunità di scegliere il suo destino. Una scelta che, di fatto, fece nel 1963 quando, circa un anno dopo la morte del padre, decise di vendere il negozio di famiglia e dedicarsi alla professione di fotografo a tempo pieno.

Già dalle sue prime immagini in bianco e nero, che stampava da sé nella camera oscura che aveva in casa, egli sentì l’esigenza di raccontare l’immediatezza del momento e dell’incontro con la gente a Johannesburg, Soweto, Nancefield, Newtown, Braamfontein e in altre aree del paese, memore della lezione dei fotografi di Life, ma anche – in momenti diversi – di Ansel Adams e Bruce Davidson. Ha fotografato bianchi e neri, ma non sempre i suoi lavori sono stati accolti favorevolmente in Sudafrica, ad esempio il libro Some Afrikaner Revisited (1975) è stato criticato violentemente e accusato di voler diffamare la storia degli afrikaner. Nel suo percorso visivo c’è spesso il riflesso delle parole di Nadine Gordimer: con il Premio Nobel per la Letteratura, il fotografo ha collaborato alla realizzazione dei libri On the Mines (1973) e Lifetimes Under Apartheid (1986). Certamente una volta era tutto più chiaro: si sapeva da che parte stare.

DELLA REALTÀ contraddittoria e tragica dell’apartheid, durata fino al 1994 con l’elezione di Nelson Mandela, primo presidente nero del Sudafrica, Goldblatt ha coerentemente descritto le contraddizioni, denunciando soprusi e crimini, così come successivamente si fece portavoce dei nuovi mali causati dalla sete di soldi e di potere. Ma non solo, egli ha insegnato a molti altri giovani fotografi a guardare con la mente aperta, quando nel 1989 fondò a Johannesburg il Market Photo Workshop non solo scuola di fotografia, anche galleria e project space. La sua eredità è nello sguardo di una schiera di artisti altrettanto straordinari, tra cui Guy Tillim, Jodi Bieber, Zanele Muholi, Nontsikelelo ‘Lolo’ Veleko.