Come ogni anno, l’appuntamento è il 21 agosto di mattina nell’inizio della via Vinohradská, a pochi passi dalla piazza Venceslao a Praga. Parte la banda militare, i fiori e i discorsi tutto sommato prudenti e dozzinali. Ad assistere, come ogni anno, qualche centinaio di persone, per lo più con i capelli bianchi. E come ogni anno mancano le autorità massime del Paese.

Cinquant’anni fa, il palazzo davanti, ancora oggi sede della radio pubblica, è stato il palcoscenico di uno dei più ricordati atti di resistenza della società cecoslovacca all’invasione delle truppe del Patto di Varsavia, che nella notte tra il 20 e il 21 agosto 1968 invasero la Cecoslovacchia. La facciata del Museo Nazionale, restaurata solo di recente, conserva ancora i fori dei proiettili sparati dai carri armati sovietici in quelle ore concitate. È uno dei pochi ricordi materiali del 1968 che rimangono in città.

I cinquant’anni dall’avvio delle riforme, che dovevano costituire un socialismo dal volto umano, e la seguente invasione dei Paesi socialisti «fratelli» è forse tra le ricorrenze meno ricordate in questo 2018 di grandi anniversari. La Repubblica Ceca ha festeggiato non soltanto i 25 anni della sua esistenza ma il 28 ottobre si appresta a ricordare i grande centenario della nascita della Cecoslovacchia.

Per l’occasione è stata organizzata una grande mostra bi-nazionale con la Slovacchia, i monumenti nazionali saranno tirati a lucido e sulla Evropská, il lungo viale che va all’aeroporto, si terrà una parata militare. Ma a essere più attivi sugli eventi del ’68 cecoslovacco sono le istituzioni estere nel Paese, come gli istituti di cultura.

La disattenzione istituzionale è forse il segno che per la società ceca il 1968 sia solo un lontano ricordo? «Il tema della Primavera di Praga divide la società in due campi – scrive l’Istituto di Sociologia dell’Accademia delle Scienze in una recente indagine sul rapporto della società ceca nei confronti di quel periodo – Il primo campo ritiene che si tratti di un evento ancora vivo della storia ceca e cecoslovacca, che non dovrebbe essere lasciato ai soli manuali di storia ma il cui messaggio va ricordato e sviluppato nel presente. Il secondo gruppo dei cechi è più scettico e ritiene che si tratti solo di storia, verso cui non ha un gran senso rivolgere lo sguardo e tanto meno trarre ispirazione».

Se la società è divisa su come approcciarsi oggi al movimento di riforma del 1968, la valutazione di quel periodo è invece abbastanza omogenea. «L’opinione pubblica sostiene che la Primavera di Praga sia stato un autentico periodo di democratizzazione della società, a cui ha per giunta partecipato la maggioranza del Paese», sostengono i ricercatori.

Minore è invece il ricordo della Primavera di Praga in Slovacchia: tra gli eventi storici valutati con maggior favore della popolazione, il 1968 cecoslovacco finisce solo settimo sorpassato addirittura dall’entrata della Slovacchia nell’Unione Europea e nella Nato. Unica eccezione è la figura di Aexander Dubček, di fatto il primo slovacco arrivato alla testa dell’allora Stato ancora unitario, che continua a riscuotere grandi consensi.

Nonostante l’etos della Primavera di Praga continui a godere di una considerazione relativamente alta, sul piano politico invece l’influenza del 1968 non si sente quasi. E ciò accade non solo perché il vecchio stato comune non c’è più. «La società ceca ha voltato presto le spalle al socialismo democratico per orientarsi, dopo un breve afflato per i diritti umani, verso un ’consumerismo’ con un’impronta ideologica modificata», così indica la parabola post 1989 del Paese lo storico Pavel Kolář.

Paradossalmente, oggi – in quel che si dice di sinistra e nel populismo del premier Andrej Babiš – prevale un approccio che si richiama più alla sconfitta del 1968: la normalizzazione. Nel maggior partito di sinistra, i socialdemocratici della Čssd, i vecchi sessantottini sono stati da tempo messi a tacere, prima negli anni Novanta dalla gestione personalistica di Miloš Zeman e oggi da tendenze sempre più nazionalistiche.

Niente da fare neppure per il Partito comunista, il Ksm, i cui dirigenti sono cresciuti con il bagaglio «culturale» della normalizzazione. Ex dirigente dell’Istituto del Commercio Estero negli anni Ottanta, anche Babiš è stato un quadro del partito normalizzato e, probabilmente, anche un collaboratore della polizia segreta, per poi costruire il suo impero economico con privatizzazioni e rapporti opachi.

Il successo della normalizzazione sulla Primavera di Praga non è però esclusivamente una questione generazionale. La Primavera di Praga è stata soffocata non soltanto dai carri armati ma da un’inversione ideologica della società.

Come sottolineato da diversi storici, la normalizzazione si reggeva sulla promessa di una società di consumi, sebbene di tipo socialista, in cambio del disinteresse verso la politica dei cittadini, che venivano coinvolti solo per manifestazioni di regime o elezioni scontate. Il ’consumerismo’ di tipo capitalista, per cui l’emancipazione e la libertà si conquistano sul mercato e tramite la proprietà, si è collegato con molta naturalezza al precedente consumismo di scambio del socialismo realizzato.

Di questa società dei consumi è parte organica anche la paura che venga qualcuno da fuori a rovinare il benessere raggiunto. Prima dell’89 erano gli «agenti delle forze imperialiste», oggi sono i migranti e i rifugiati. Così Praga oggi non è più «sola»: da Piazza Venceslao ’68 è ormai in prima fila tra i Paesi del Gruppo di Visegrad che alza nuove frontiere e fili spinati.