Proviamo per un attimo a parlare di Dau, Natasha come se si trattasse di un film come un altro e non del capitolo cinematografico di un’opera titanica, labirintica e in tutti i sensi mostruosa. In una cittadella della ricerca sovietica, sul finire dell’epoca stalinista, una donna di mezza età di nome Natasha lavora alla mensa dove ogni giorno si accalcano ricercatori, scenziati e membri del KGB. Natasha impiega una giovane aiutante di nome Olga, con la quale intrattiene dei rapporti che fluttuano costantemente tra l’intimità e la gerarchia. Quando i clienti lasciano il ristorante, Natasha e Olga mangiano e bevono, discutono della loro vita, si accapigliano e in qualche caso vengono alle mani.

Non c’è bisogno di raccontare altro per capire l’insieme di Dau. Anche se definirlo è piuttosto difficile. Come un film qualunque, Dau ha una storia, un protagonista e un intreccio dotato di un inizio, uno sviluppo e una fine. Certo, Dau Natasha differisce dal ritmo delle pellicole che d’ordinario si vedono in sala. Qui un dialogo, una scena di sesso o di tortura durano un tempo quasi naturale. La macchina da presa,  sempre in spalla, si aggira tra i protagonisti osservandoli, come se non ci fosse messa in scena. Ma quest’estetica, lungi dall’essere unica, è quella di tanti film che cercano di somigliare alla vita vera.

D’altro canto, Dau pretende di andare al di là della verosimiglianza. Non si tratta di rappresentare realisticamente la vita. Ma di osservare, come al laboratorio, una forma particolare di esistenza chiusa in una particolare forma di organizzazione politica. Come detto, Dau Natasha non è che un capitolo di una serie di film ricavati a partire da 700 ore di materiale girato in 35mm su un periodo di un centinaio di giorni. Il set è una ricostruzione fedele dell’istituto diretto dallo scenziato russo premio nobel Lev Landau tra 1938 e 1964. Il progetto non è quello di ricreare una scenografia ma di riprodurre le condizioni di vita della cittadella. Per tre anni, una piccola armata di persone sono state invitate e pagate per vivere in Dau, come topi da laboratorio.

Dau è un’esperienza antropologica dentro un’esperienza artistica (e viceversa), il tutto all’interno di un’esperienza scientifica finanziata da un’oligarca e diretta da un cineasta/demiurgo, Ilya Khrzhanovsky che fino a Dau non aveva fatto altro che un film, Quattro, e che con Dau è diventato il più discusso artista contemporaneo al mondo (per più dettagli sulla produzione, si può rileggere l’articolo di Kamila Mamadnazarbekova, Dau il laboratorio del controllo, Il Manifesto, 23/02/2019).

Ora, un’esperienza scientifica è per definizione distinta dall’esperienza ordinaria dal fatto che la prima è guidata da una teoria. Qual’è la teoria che DAU vuole di dimostrare ? La violenza fisica e psicologica che Natasha subisce dal regime è in fondo della stessa natura di quella che lei infligge nel microcosmo della mensa da lei diretta. Ogni elemento di DAU descrive la totalità di DAU, che a sua volta è una sorta di microcosmo dell’unione sovietica (altri dicono della Mosca dei primi anni novanta). Il gioco delle matrioske non finisce qui si se si tiene conto che Ilya Khrzhanovsky è stato accusato di ricorrere a sua volta alla violenza fisica e psicologica sui propri attori e collaboratori. Queste accuse (raccolte in particolare dal quotidiano Le Monde in una lunga inchiesta di Aureliano Tonet e Brigitte Salino, A Paris Dau sème les roubles et les troubles) sono confermate da alcuni, smentite da altri ; ora, persino queste diatribe hanno un retrogusto sovietico, esse ravvivano la memoria del famoso processo tra Les Lettres françaises e lo scrittore Victor Kravchenko.

Dau descrive il totalitarismo come un oggetto frattale. Appare così impossibile guardare Dau dall’esterno. Perché ogni punto esterno si rivela in ultima analisi al tempo stesso parte dell’insieme e immagine del tutto. Lo spettatore è preso dentro la stessa logica di tutti gli altri partecipanti, è parte dell’esperienza. Almeno fino a che continua a guardare. E anche chi critica Dau, avendolo visto o meno, ne fa parte (come in un sistema totalitario esistono i dissidenti, i sabotatori, gli ortodossi, le potenze straniere…). Ma ogni sistema chiuso, come è noto, è fondato su alcuni principi che sono per forza di cose esterni al sistema stesso. La teoria che fonda Dau non è mai esplicitata, non potrebbe esserlo (appunto perché deve essere l’unica cosa che è effettivamente esterna al film). Ma tutto Dau non fa che rispondere alla domanda: « com’è possibile Dau?». Per avere la risposta bisogna vederlo… Oppure leggere I Fratelli Karamazov.