DAU è un progetto di ricostruzione artistica della realtà storica. Forse il più imponente mai visto: quindici anni di preparazione, tre anni di riprese a Kharkiv (in Ucraina), tredici film per un totale di settecento ore, e, infine un’installazione, a Parigi, dal 24 gennaio al 17 febbraio, situata in tre luoghi chiave della città : il Centre Pompidou, il Théâtre de la Ville e il dirimpettaio Théâtre du Châtelet.

DAU usa il cinema, il teatro, l’arte visiva, la performance e cerca di sfondare il confine tra pubblico e attori, tra attori e personaggi, tra finzione e realtà. Il progetto è tratto alla biografia del fisico sovietico Lev Landau (il cui nomignolo era, appunto, Dau), premio Nobel nonché direttore di un istituto di ricerca sovietico. Questo era come una cittadella autonoma e isolata, comprensiva di laboratori, di classi, ma anche di appartamenti, ristoranti, tutto gestito da un’elite intellettuale e politica.

TRA STORIA E FINZIONE
Non era l’unico di questo tipo – a partire dagli anni trenta e fino alla destalinizzazione ne furono costruiti diversi. E non è difficile capire in che senso queste cittadelle della scienza possono essere intese come un microcosmo dell’Unione Sovietica. L’idea di ricrearne una e di farne uno spettacolo è del regista russo Ilya Khrjanovsky, che prima di DAU aveva girato un film più convenzionale, Chetyre (Quattro) ed è riuscito a finanziarne il costo, oltre settanta milioni di euro. La prima era prevista a Berlino dove una parte del Muro doveva essere ricostruita e in seguito abbattuta. Ma l’idea non è piaciuta e il comune di Berlino non ha dato l’autorizzazione.

A Parigi, anche senza il Muro, DAU ha scandalizzato, polarizzando il pubblico, sollevando diverse e non poche questioni etiche. DAU rappresenta il totalitarismo o lo riproduce? In DAU non si entra con un biglietto ma con un visto. La domanda si fa on line, riempiendo (più o meno sinceramente) un formulario sui propri gusti sessuali, le proprie paure, la propria visione spirituale… Il visto di sei ore costa trentacinque euro, con settantacinque euro si può andare e venire per ventiquattro ore, centocinquanta euro danno un accesso illimitato. Lo si ritira al centro visa, attrezzato nel mezzo della piazza dello Châtelet. Mettersi in coda vuol dire già prepararsi a tuffarsi (o a rituffarsi per alcuni) nell’epoca sovietica. C’è poi il cibo, servito in una mensa con pietanze tipiche (borsch, salat vinagrette, vino, tutto di qualità sovietica proposto su piatti d’alluminio). Anche l’imprevisto è reinvestito nello sforzo di ricostituzione: i bagni del Théâtre de la ville, fuori uso per lavori, sono sostituiti da toilette in legno in stile villaggio russo.

Per orientarsi, al posto dei telefoni, ritirati all’ingresso, si riceve un dispositivo chiamato DAU-phone che guida lo spettatore – in teoria personalizzando il percorso sulla base delle informazioni fornite per il visto.

Il nostro ci invita ad andare sulla terrazza del Théâtre de la Ville dove sono ricreati degli appartamenti. Come nelle installazioni totali di Kabakov, le abitazioni sono riempite di oggetti d’arte concettuale presi in prestito a musei e collezioni, ma anche di persone in carne ed ossa : vecchie donne russe (trovate nella periferia di Parigi), sciamani e danzatori siberiani. Capita di incontrarci delle persone che hanno lavorato sul set. Alcuni sono venuti per conto loro a Parigi, come Anna Volkova, che in Œdipus è una donna di servizio. Durante le riprese, Anna ha avuto una relazione con Nikolai Voronov, ex-bambino prodigio della canzone e noto youtuber, scritturato per il ruolo del figlio di Dau, Denis. La loro storia è diventata parte del film, rapporti sessuali compresi. Quando le si chiede dei suoi quattro mesi sul set, dice che «è stata un’esperienza gioiosa e interessante». Attualmente vive a Mosca dove sviluppa un suo progetto artistico di pittura e fotografia.

ARTISTI A SORPRESA
Le performance sono annunciate ma non programmate. Gli artisti invitati cominciano in maniera spontanea. Per assistere ci si può affidare al caso. Oppure, come in Unione Sovietica, si può cercare di ottenere informazioni ufficiose, in una coda, o da conoscenti illustri. Gli autori rivendicano questo caos, come fattore ulteriore d’immersione nella vita sovietica – dove, è noto, le cose andavano di rado come previsto. Il risultato è ineguale. A volte è un disastro. A volte un successo oltre le attese. Alcuni fortunati avuto accesso ad un concerto segreto di Brian Eno o ad una danza improvvisata di Sacha Waltz, o ad un concerto dell’orchestra di Currentzis… Di certo la concentrazione di artisti è incredibile e funziona, proprio come nel progetto dell’istituto, da catalizzatore di incontri e di creazioni inattese.

Alla mensa, ascoltiamo lo scrittore Jonathan Littell discutere con Ilya Khrzhanovsky. Parte dello spettacolo? Il regista-demiurgo si aggira per la sua Scuola d’Atene, di cui è autore e protagonista, con sottobraccio, al posto dell’Etica a Nicomaco, un libro del XIX secolo dell’autore satirico russo Saltykov-Schedrin. La sua presenza dà un tocco magico e assurdo a tutta l’installazione, alimentando l’illusione del controllo assoluto del direttore, come Stalin che ripara un trattore, nell’aneddoto raccontato da Slavoj Zizek in Pervert’s guide to ideology.

DIFFERENZE DI CLASSE
Ad ogni angolo statue di cera riproducono i protagonisti dei film. A loro volta, se alcuni di questi personaggi sono creati sulla base della biografia di Landau, gli autori hanno integrato degli elementi della vita reale degli attori; l’idea è quella di mischiare le origini fino a rendere inutile la distinzione tra originale e copia.

L’ucraina Radmila Shchyogoleva, che interpreta la moglie di Landau, Nora, è la sola attrice professionista sul set. Landau è il direttore d’orchestra di origine greca Toedor Currentzis. Anatoly Vassiliev, maestro del teatro psicologico è Krupitsa, mentore di Landau. Tutti sono stati invitati a vivere sul set.
I dialoghi sono frutto dell’immersione nel contesto ma anche della vita reale.

Un esempio è la scena in cui Vassiliev/Krupitsa discute di Don Giovanni con Dau/Currentzis, concludendo che, mentre lui è un teorico, l’altro è uno sperimentatore : una definizione che si addice tanto alla vita reale di questi due artisti che ai personaggi fittizi da loro interpretati. Ci sono poi veri e propri ricercatori come David Gross e Carlo Rovelli, Shing Tung-Yau e James H. Fallon, il filosofo Andrey Losev, il matematico Dmitry Kaledin. A tutti è stato offerto di continuare le proprie ricerche sul set di Kharkiv.

Numerosi artisti, politici e celebrità hanno visitato il set. Tra gli altri : Marina Abramovich, Romeo Castellucci, Peter Sellars, Tatiana Grindenko, Sergio Cecotti…

Ad alcuni è stato dato un ruolo pur partendo dalla loro vita. Marina Abramovich è registrata negli archivi di DAU come professore di anatomia in visita dalla Jugoslavia. Un film la ritrae mentre fa degli esperimenti spettacolari nel cortile dell’istituto in compagnia di sciamani siberiani. Quanto ai politici, di solito sono stati integrati con la veste di membri del partito o di delegati stranieri. Fin qui abbiamo parlato dell’elite politica e intellettuale.

Ora, una delle ambizioni di DAU, se non la principale, è quella di raccontare le differenze di classe inerenti alla vita di questo microcosmo sovietico. Al servizio dei membri privilegiati c’era ovviamente una schiera di servitori, assistenti, stagiste, bibliotecarie. Gli interpreti di questa classe di subalterni hanno un ruolo nella produzione anch’esso subalterno. La maggior parte dei film racconta delle storie di relazioni sentimentali e sessuali, apparentemente futili ma che osservate con piglio scientifico permettono di studiare una vera e propria fenomenologia dei rapporti di dominio sociale. Ovviamente, è impossibile vedere tutto. Ma nelle videoroom si può creare un proprio montaggio a partire da un tema o da un personaggio. Va detto che, poiché la maggior parte delle sequenze contengono immagini di sesso esplicito, tutta l’esperienza somiglia a quella di una cabina porno.

SESSO E POTERE
Creare un laboratorio delle passioni umane è il sogno di molti seri autori del XX secolo. DAU sposta molto in là le frontiere dell’avanguardia. Scoprendone nuovi limiti.

Viene in mente un episodio della serie di Matthew Weiner The Romanoffs, con Isabelle Huppert nel ruolo di un regista demiurgo che violenta gli attori appena arrivati sul suo set di un pomposo dramma sulle ultime ore della famiglia dello zar. Introducendosi nella loro vita privata, manipolando i loro sentimenti epenetrando nello spazio tra l’attore e la sua maschera, sfruttando i conflitti dati dalle circostanze, proprio come richiede il famoso «Metodo», Isabelle riesce a produrre una performance più autentica.

Il set che Weiner immagina, Khrzhanovsky è riuscito metterlo in piedi, con la complicità di un oligarca russo. L’ambizione di DAU impressiona, la libertà che l’autore si è concesso è quella di un pittore del rinascimento che crea un suo giudizio universale sotto la protezione di un mecenate. Il problema è i personaggi di DAU non sono dipinti ma in carne ed ossa. E che negli ultimi quindici anni il mondo è cambiato drasticamente, imponendo nuovi standard etici anche alla sfera dell’arte. Apparentemente, DAU risponde con la propria logica: quella di una cittadella isolata.

La realtà è più paradossale. Se da un lato il set di DAU non sarebbe stato possibile a Parigi, per questioni etiche ma anche economiche, dall’altro l’installazione parigina non sarebbe possibile a Kharkiv o in nessun altra citta dell’Ucraina o nei territori post-sovietici. È in questo che la prospettiva di DAU diventa da nostalgica contemporanea, essa ci mette davanti a un rapporto al tempo stesso di opposizione e di complementarietà economica ed etica dell’Occidente con l’Europa dell’Est. L’installazione parigina è finita il 17 febbraio, in futuro è annunciata a Londra, ma non c’è ancora una data precisa.