Alfredo D’Attorre, Fassina sostiene che senza cambi radicali al Ddl scuola uscirà dal Pd. Lei?

Siamo impegnati in questa battaglia politica e parlamentare. Credo sia giusto aspettarne l’esito sia per la rilevanza di merito, sia per il significato che ha sul futuro politico del Pd. Il problema non è quello che decide Civati, Fassina, io o altri. Il vero problema è la diaspora silenziosa di un mondo vasto di sinistra e di tessuto diffuso di militanza che non si riconosce più in questo partito. Questi abbandoni fanno meno rumore sui giornali, ma costituiscono il dato politico più grave sul quale ci si dovrebbe interrogare.

Al Senato le minoranze Pd voteranno contro il governo, anche se ci sarà la fiducia?

Francamente non lo so. Siamo agli inizi dell’iter parlamentare. Per quanto mi riguarda, senza correzioni profonde sulla chiamata dei docenti da parte del preside e sui suoi poteri, sulle modalità delle assunzioni dei docenti precari e sul finanziamento alle scuole da parte dei privati, non credo che potrà esserci il mio voto favorevole.

Lei è anche un ricercatore universitario. Qual è il suo giudizio sulla riforma della scuola voluta dal Pd di Renzi?

Mi pare la traduzione nella scuola della sua posizione sull’università. Renzi ha dichiarato che non è solo normale, ma perfino giusto, che ci siano università di serie A e di serie B. Si vuole aprire una competizione tra gli istituti sulla capacità di raccogliere fondi privati, di attrarre gli studenti delle famiglie benestanti e quindi il 5 per mille dei loro genitori, di reclutare i docenti più bravi. È un modello che amplifica le disuguaglianze e scardina una sistema nazionale di formazione su base universalistica, in cui l’autonomia dei singoli istituti deve servire a raggiungere di obiettivi condivisi.

Quale modello si vuole invece creare?

La competizione tra istituti e l’apertura al privato nascono da due idee di fondo: in primo luogo, la verticalizzazione del potere, per la quale c’è un capo che decide per tutti in una comunità, sia essa un’azienda, una scuola, un partito o la Rai, con la convinzione che le cose «così funzionano meglio». In secondo luogo, si amplia il dato delle diseguaglianze tra scuole, università o studenti sulla base del reddito delle famiglie, attraverso una subdola retorica del merito. Così il merito non è più il modo con il quale viene data la possibilità a chi è privo di mezzi di avere una formazione di qualità. Diventa l’artificio retorico per legittimare e ampliare le diseguaglianze disegnate dalle condizioni economiche familiari di partenza.

Come ci si sente in un partito che intende realizzare questa idea di società?

Il mio disagio è molto profondo. Stiamo toccando i fondamenti di una visione della società ispirata all’uguaglianza, alla partecipazione, al lavoro. Ciò che in questi mesi il governo ha fatto su questi temi è difficilmente compatibile con le idee di fondo con cui tanti di noi sono arrivati all’impegno politico. Nelle prossime settimane dovremo capire se il progetto di una sinistra popolare e di governo, non subalterna come talvolta è stato nell’ultimo ventennio, possa vivere nel Pd o debba trovare altre strade. Finché vedrò uno spiraglio, continuerò a battermi nel Pd. È evidente però che un partito è, e deve restare, uno strumento al servizio di alcuni principi e non può mai essere sovraordinato ad essi.