I dati e le decisioni sui farmaci e sui vaccini devono essere «aperti», cioè accessibili ai ricercatori per analisi indipendenti. Dopo l’appello del British Medical Journal (Bmj), lo chiede anche l’Associazione «Alessandro Liberati». L’associazione è il nodo italiano della rete internazionale Cochrane, una rete di ricercatori indipendenti che riesamina in modo sistematico i dati e la letteratura scientifica su terapie e dispositivi medici alla ricerca di manipolazioni, inconsistenze nei dati e conflitti di interesse. Ai tempi dell’influenza suina, proprio la Cochrane evidenziò il caso del Tamiflu, farmaco anti-influenzale comprato in miliardi di dosi da tutti i governi che, dopo una lunga battaglia per ottenere i dati originali dalla Roche, si rivelò assai poco efficace.

Come hanno scritto l’attuale direttore del Bmj Karim Abbasi, l’ex-direttrice Fiona Godlee e il ricercatore Peter Doshi (uno dei protagonisti dell’affaire Tamiflu), le aziende che producono vaccini e terapie anti-Covid sono ancora restie a condividere i dati originali raccolti durante le sperimentazioni. Per il vaccino Pfizer, ad esempio, l’azienda si è detta disponibile a condividerli su richiesta, ma solo dopo il 2025.

«È questo il tempo di chiedere i dati grezzi, ma è di fatto anche il tempo della necessaria crescita/imposizione del rigore scientifico, della trasparenza e della metodologia Cochrane, quindi la completezza e la ripetibilità del metodo», ha commentato la presidente dell’associazione Maria Grazia Celani. «Ma è un circolo vizioso perché con pochi dati o con dati selezionati le revisioni sono spazzatura». Evidenze affidabili e decisioni informate, secondo Celani, «dovrebbero rappresentare uno strumento unico e diffuso utilizzato dalle agenzie regolatorie ma anche da società scientifiche, università, riviste internazionali e nel corso di discussioni di esperti».

ANCHE IL PIÙ FAMOSO farmacologo italiano, il fondatore e presidente dell’Istituto «Mario Negri» Silvio Garattini, è d’accordo con la richiesta. «In una situazione di questo tipo, con un impatto straordinario a livello mondiale, la richiesta di avere a disposizione i dati singoli è assolutamente ragionevole e condivisibile. I dati – prosegue – non possono rimanere patrimonio esclusivo di chi li ha sviluppati, specie in un contesto che ha visto le aziende utilizzare i dati della ricerca di base pagata dal pubblico».

La richiesta di trasparenza che riguarda vaccini e farmaci anti-Covid non c’entra nulla con la sfiducia pregiudiziale nei confronti dei vaccini. L’uso di dati aperti è uno standard che si va affermando in tutte le discipline scientifiche, non solo quelle mediche. La riproducibilità dei risultati, uno dei pilastri del metodo scientifico, presuppone infatti che i dati siano innanzitutto disponibili. Alla trasparenza dei dati, inoltre, è legata anche la fiducia della cittadinanza nelle politiche di sanità pubblica. E dalla fiducia dipende la partecipazione pubblica alle misure di prevenzione, e dunque la loro stessa efficacia, soprattutto durante una pandemia. Aumentare la fiducia nei confronti dei vaccini attraverso una maggiore trasparenza dovrebbe essere l’obiettivo proprio di chi in questi strumenti crede maggiormente.

COMUNICARLO SENZA passare per no vax non è facile, spiega Rita Banzi, responsabile del Centro Politiche Regolatorie in Sanità del «Mario Negri», se ci si concentra solo sui vaccini.

«La richiesta di una maggiore condivisione dei dati deve valere per tutti i trattamenti, per tutte le malattie, per tutti gli studi e per tutti gli sponsor. Deve essere visto come un tema universale. Nel caso dei vaccini per Covid-19, tuttavia, l’urgenza esplicitata dagli autori rischia di far passare l’idea che ci sia qualcosa che non ci viene detto, qualche dato che dovremmo leggere in maniera diversa».

Il problema della chiusura dei dati non riguarda solo la comunità scientifica, impossibilitata a svolgere ricerche indipendenti su alcune delle scoperte di maggior impatto sociale. Ma coinvolge le stesse agenzie regolatorie: tra quelle più rilevanti, solo la statunitense Food and Drug Administration richiede alle aziende di fornire i dati originali sui farmaci da autorizzare.

L’Agenzia europea del farmaco, come quella inglese e canadese e la stessa Agenzia Italiana per il Farmaco, deve invece accontentarsi di dati aggregati. Secondo Antonio Addis, ricercatore del Dipartimento di epidemiologia del Servizio sanitario regionale della Regione Lazio e membro della Commissione Tecnico Scientifica dell’Aifa, le agenzie regolatorie dovrebbero adottare gli strumenti della ricerca indipendente. «La cosa che bisognerebbe fare – spiega – è portare la metodologia delle revisioni sistematiche e delle metanalisi, di fatto l’approccio Cochrane, all’interno delle agenzie regolatorie. Non si capisce perché la Cochrane non possa avere un accesso diretto ai dati attraverso le agenzie regolatorie».