È stata un’ovazione calorosissima, a più riprese, quella che ha accolto «il cast» di Citizenfour al suo arrivo sul palco dell’Alice Tully Hall, un’ovazione di enorme gratitudine, di quelle che si riservano agli eroi. L’attesissimo documentario di Laura Poitras su Edward Snowden ha avuto la sua prima mondiale venerdì sera al New York Film Festival, prima di arrivare nelle sale Usa il 24 ottobre e subito dopo in parecchie città d’Europa (purtroppo in Italia non ha ancora un distributore).

Ambientato tra il gennaio 2013, quando Snowden si è messo per la prima volta in contatto con Poitras, dopo aver deciso di rilasciare i documenti segreti della National Security Agency, e il luglio scorso, in occasione di un nuovo incontro tra Snowden, la regista e il giornalista inglese Glenn Greenwald, il film è girato nel mood freddo, inquietante e preciso di un thriller (la montatrice, Mathilde Bonnefoy, ha lavorato con Tom Tykwer), zigzagando, come farebbe Jason Bourne, tra una rete di capitali (Rio de Janeiro, Hong Kong, Londra, Bruxelles, Berlino, Mosca….) che comunica anche visceralmente la globalità dell’intreccio.

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Niente voice over, niente macchina in continuo movimento, una costruzione calma, studiatissima, quasi paranoica verrebbe da dire, in cui anche i colpi di scena arrivano in modo soft: Citizenfour ha ambizioni, ritmi e texture completamente diversi dal tipico documentario inchiesta, anche se alla fine, in una semplice, bellissima, inquadratura presa di notte dall’esterno di una casa, «scopriamo» che la compagna di Snowden, la ballerina Lindsay Mills, è andata a vivere con lui a Mosca e, soprattutto, che Glenn Greenwald sta già lavorando con un altro whistleblower, su documenti segreti relativi a un altro braccio del governo Usa, riguardanti il programma dei droni e che implicherebbero in prima persona il presidente degli Stati uniti.

Lo apprendiamo da piccoli squarci dei foglietti di carta scritti a mano che Greenwald passa a Snowden durante il loro ultimo incontro. «È un uomo molto coraggioso», dice Snowden, e poi ancora «è ridicolo» si lascia scappare con espressione incredula quando uno dei foglietti dice che oggi il governo americano avrebbe 1.2 milioni di persone sulla sua watch list. Quando quella conversazione quasi muta si conclude, i foglietti vengono stracciati in frammenti piccolissimi.

Non sappiamo veramente quali informazioni contiene questa nuova leak , e quando arriveranno, ma il messaggio su cui chiude Citizenfour è chiaro: Edward Snowden non è (più) solo. E Poitras gioca quella rivelazione (ventilata da CNN già da quest’estate) non tanto per il suo valore di suspense ma come un dato fatto, il suo è un film che vuole essere più del ritratto di un’eccezione, una lucida chiamata alle armi.

La storia di Laura Poitras e Edward Snowden è iniziata via mail. È stato lui a contattarla, perché sapeva che stava lavorando a un film sui programmi di sorveglianza segreti del governo Usa, di cui lei stessa era stata vittima, a partire dal 2006, durante la lavorazione del suo primo documentario, My Country My Country, sulla guerra in Iraq. Sullo schermo vediamo i testi di quei loro primi scambi, in cui l’allora tecnico dell’azienda informatica Booz Allen Hamilton (consulenti abituali della NSA), nome in codice Citizenfour, annuncia di volerle affidare i documenti relativi a quella che lui definisce «la peggiore macchina di oppressione mai creata nella storia dell’umanita».

Personaggio chiave del film, Poitras è fisicamente quasi invisibile (sentiamo ogni tanto la sua voce morbida, vediamo un’immagine fuggente in uno specchio, le sue risposte telegrafiche alle mail di Snowden scorrono sullo schermo…), ma la sua è una presenza potentissima, la presenza di un architetto. Dalla galleria buia in cui è ambientata la prima parte del film, usciamo alla luce quando la regista, insieme a Glenn Greenwald (che Snowden le aveva suggerito di contattare), e reporter del Guardian Ewen MacAskill, arrivano a Hong Kong, dove avevano appuntamento con Snowden. Il cuore di Citizenfour è infatti nella camera d’albergo del Mira Hotel, dove i tre giornalisti lo hanno incontrato per una settimana a partire dal 3 giugno, e da dove hanno iniziato a inviare gli articoli basati sui suoi documenti.

Poitras filma le conversazioni tra giornalisti e Snowden, intervenendo raramente. La prima cosa che colpisce di lui è che sembra ancora più giovane di quanto risultasse nel video rilasciato poco prima di scomparire da Hong Kong, per poi riaffiorare all’aeroporto di Mosca. L’altra è la chiarezza con cui spiega le sue ragioni e con cui ha pianificato la sua decisione. Un ragazzo, seduto su un letto bianco sempre sfatto, le magliette che cambiano colore con il passare dei giorni e l’espressione che si fa più stanca ma anche più sollevata, mano a mano che la sua «storia» prende una vita che lui non potrà controllare più (il primo articolo di Greenwald uscito sul Guardian è del 5 giugno).

L’atmosfera ha una tranquillità paranoica. Il telefono dell’albergo è staccato «perché può raccogliere informazioni anche quando la cornetta non è alzata». Un test dell’allarme antincendio lo manda panico, ma in quello che succede non c’è mai traccia di dubbio. È chiaro anche che Snowden ha lasciato interamente ai giornalisti la scelta di come e quando rendere pubblici i documenti. E che non ha mai pensato di rimanere una fonte nascosta. Anzi, a un certo punto, chiede che gli venga dipinto «un bersaglio sulla schiena».

La sua meno una voglia di protagonismo che, ammette, un modo di dire fuck you, questa è un’ingiustizia troppo grossa. Dalle Hawai (dove abitava e da cui se ne era andato senza avvisare nessuno) gli dicono che davanti a casa sua ci sono dei camioncini sospetti e che sta succedendo qualcosa con il suo conto in banca…Il governo americano si sta avvicinando. Ma anche quando Snowden viene trovato ed è costretto a scappare dal Mira, il film non si scompone. Si rasa la barba, cerca di pettinarsi in un altro modo per rendersi meno riconoscibile. Con quella stessa calma dolce, nervosa, con cui parla. Un personaggio più da Eastwood che da Oliver Stone.

E Poitras stacca solo ogni tanto «fuori», sulle superfici di vetro e metallo dei grattacieli di Hong Kong, imperturbabili. La materia è puro LeCarrè, ma il protagonista di questo film non è «il traditore» della patria che il governo americano vorrebbe processare per spionaggio. E una volta che Citizenfour arriverà in sala sarà ancora più difficile rendere credibile quel ritratto. Ad accompagnare l’uscita del film, sono previste apparizioni virtuali di Snowden un po’ da tutte le parti. Già ieri una lunga intervista via skype con Janet Mayer, del New Yorker, era accessibile via streaming. Anche The Nation ha postato gli stralci di un’intervista condotta quest’estate a Mosca.

La storia di Snowden è ancora in progress. E il film non risponde volutamente a parecchie domande (tra cui cosa c’è nel resto dei documenti e dove sono custoditi). Ieri però sul sito di Greenwald e Poitras, The Intercept, è apparso un altro articolo tratto da ciò che contengono. Ma, grazie a Citizenfour, il suo caso sta per diventare molto più pubblico. E non poteva essere presentato meglio di così.