Si chiedeva Cesare Garboli, giusto vent’anni fa, se il modo migliore di raccontare un libro non fosse quello di seguire la direzione inversa alla lettura, ovverosia di cominciare dalla fine. Certo di non guastare nessuna sorpresa a chi l’avesse seguito fin lì, con fare sbrigativo e serafico, spiattellava così nella sua introduzione alla Storia di Elsa Morante che tutti i personaggi del romanzo, prima o dopo, muoiono. Del resto, spiegava, la Morante è maestra nel far morire le persone. Ancora più brava, aggiungeva poche righe più sotto arrivando a quel che davvero gli premeva, è però nel descrivere gli antefatti: la Morante soffre infatti di una «sindrome narrativa» che «presuppone il bisogno di legittimare l’immaginario e di dargli coerenza». Un’analoga vocazione all’antefatto, direi una stessa, immedicabile necessità espressiva, rivela Daša Drndic nel suo terzultimo romanzo, il primo proposto al pubblico italiano, che uscito in croato nel 2007 condivide con La Storia, oltre alle temerarie ambizioni di totalità, lo sguardo inorridito sulla «menzognera e traditrice madre di vita» eletta a sua assoluta protagonista: «scandalo» e «oscenità» interminabile nell’opera più discussa di Elsa Morante, la Storia dispiega la sue cupe ali su Trieste (Bompiani «Narratori stranieri», pp. 443, euro 19,00) come un vampiro «succhiasangue», somiglia a una «lava» che «ricopre le vie e le piazze, penetra nelle stanze e pietrifica» le persone.

Ma quale è il fatto e quale invece l’antefatto in questo libro sorprendente che obbliga il lettore a un’immersione senza ossigeno nell’oceano maleodorante e infetto della Storia, a una burrascosa traversata da cui è impossibile rientrare se non guadagnando terra coperti di detriti e avvinghiati da alghe putride? In sostanza, cosa racconta nelle molte pagine di Trieste questa autrice da noi finora paradossalmente sconosciuta, che nata a Zagabria nel 1946 ha lavorato per più di vent’anni a Radio Belgrado e oggi vive a Fiume, laureata in letteratura inglese e studiosa di Lillian Hellman, narratrice ma anche saggista, poetessa, commediografa? Si tratta in due parole di una scomparsa, il rapimento dalla carrozzina di un bambino di nemmeno sei mesi mentre la madre, che lo sta accompagnando al nido, volta la testa per firmare una ricevuta al portalettere. È però il 13 aprile 1945 e ci troviamo in una via di Gorizia, all’epoca nell’Adriatisches Küstenland governato dal gauleiter Friedrich Rainer. La ragazza si chiama Haya Tedeschi, benché sia battezzata appartiene a una famiglia ebrea. L’uomo di cui si è invaghita finendoci a letto risponde al nome di Kurt Franz, detto Lalka per i lineamenti infantili, unterscharführer delle SS e sadico aguzzino prima a Treblinka, adesso nella Risiera di San Sabba. Per quanto Haya sia un personaggio inventato il suo amante purtroppo è una persona vera. Drammaticamente vero è anche il progetto Lebensborn, per cui nell’Europa occupata centinaia di migliaia di bambini, dai connotati corrispondenti ai criteri della purezza ariana, furono sottratti alle famiglie di origine e germanizzati. La sparizione del piccolo Antonio avviene circa a un terzo del romanzo: non credo di rovinare una sorpresa a nessuno se aggiungo che lui e Haya per ritrovarsi ci metteranno sessantun anni abbondanti.

In realtà Daša Drndic quel loro incontro non lo descrive affatto, si arresta sulla soglia della casa di Gorizia in cui il 3 luglio 2006 un uomo che arriva da Salisburgo e ha sempre creduto di chiamarsi Hans Traube suppone di rivedere finalmente sua madre. Il lettore ne ha l’assoluta certezza, perché all’interno della stessa casa, nello stesso pomeriggio, si era trovato in attesa insieme ad Haya cominciando a leggere il libro. Nel frattempo è passato dalla terza alla prima persona e ha percorso tra infiniti andirivieni un secolo intero, seguito le peripezie della famiglia Tedeschi e conosciuto i suoi membri a partire dal bisnonno militare nell’esercito austriaco durante la prima guerra mondiale, ascoltato la vicenda sofferta di una striscia di terra a lungo contesa. Chi è che racconta, si domanda alla fine? La voce fuori campo dell’autore o Antonio che scrive la sua storia riordinando materiali accumulati in tanti anni di reciproca ricerca da lui stesso e dalla madre? Nel corpo vivo della scrittura Drndic accoglie verbali di interrogatori e testimonianze processuali, memorie dei sopravvissuti all’Olocausto, lettere, schede biografiche, fotografie, spartiti: Trieste ha l’odore e il fruscio dei documenti d’archivio, qua e là si sente cigolare lo sportello di un armadio, rumore di polvere sbattuta via. «E proprio quando meno me l’aspettavo, la Storia mi è saltata addosso, in un istante, hop!, e come un’orribile carcassa, un cadavere imputridito, mi si è appesa al collo, mi ha affondato i suoi artigli nell’aorta e non mi ha più mollato. Vorrei liberarmene, di questa Storia, ma lei non mi molla, mi si agita addosso quando cammino, mi giace addosso quando dormo, mi guarda dritta negli occhi, e maliziosamente mi dice, sono sempre qui con te», riflette Antonio. È un’emozione uguale, la stessa dolorosa consapevolezza in cui rimane impigliato il cuore del lettore.

Ha dichiarato l’autrice qualche mese fa in un’intervista, che il sottotitolo Un romanzo documentario (aggiunto in copertina già dall’editore croato) non lo avrebbe voluto. Lei semplicemente intreccia fra loro «eventi accaduti e fatti immaginari» tessendo una stoffa narrativa tutta sua. È una notevole soddisfazione, ha aggiunto, che i lettori siano «talmente sorpresi da non distinguere più cosa è reale e cosa è inventato». La stupefacente potenza evocativa, la coesione drammatica di questo romanzesco bricolage si affida a uno stile monologante e saturo, sapienziale, capace tanto di sperimentare timbri diversi, quanto di assecondare un ritmo volubile, da frase a frase incalzante o maestoso. Anafore, iterazioni, analogie, richiami trapuntano un dettato che non è difficile immaginare molto complesso da tradurre: lo straordinario, empatico tour de force di Ljiljana Avirovic avrebbe meritato una revisione editoriale più attenta alle scelte lessicali (può un «sorriso» essere sguaiato? e soprattutto, è udibile un «sorriso»? esistono voci che «archeggiano» una storia? o piuttosto la sussurrano?) e alla congruenza dell’impianto narrativo (un’indicazione di mese erronea e un’erronea concordanza di genere minano la comprensione dell’entrata in scena di Hans-Antonio, con il salto dalla terza alla prima persona, nella zona finale del libro).

Romanzo dell’identità e del destino, racconto sul potere oroscopico del nome (Sonnenschein, vezzeggiativo in tedesco di Riccardo Illy bambino, risulta intitolato nell’edizione originale), Trieste è anche il poema della fiducia nella cultura contro la sopraffazione della Storia. L’autrice, capace come Elsa Morante di scrivere da una «distanza che pareggia i vivi e i morti», non solo incrocia nella trama l’esistenza di Haya con quelle di Umberto Saba o Renato Caccioppoli, ma intarsia il suo enunciato di citazioni da Borges e Ungaretti, Hemingway e Campana, Pound, Giono, Montale, Kiš. È del resto un metafisico, allusivo collage di versi estratti dalla Terra desolata a concludere il libro, soluzione che ricalcando proprio la chiusa di quel testo ne evoca la forte ragione poetica: «con questi frammenti io ho puntellato le mie rovine» scriveva T. S. Eliot quasi un secolo fa. Le parole della Letteratura, sembra dire adesso Daša Drndic, sono una zattera capace di resistere al mare in tempesta della Storia.