«Perché scegliamo una cosa e non un’altra? È importante sapere se la scelta che faccio è la conseguenza di una serie di connessioni causali? O se discende da un qualche sentimento insito in me? O forse la mia vita è servita solo per arrivare a questo preciso istante e io sono il tassello di un puzzle che non posso comprendere né influenzare». Queste domande di natura filosofica le pronuncia uno dei numerosi personaggi della nuova serie Netflix, Dark, creata da Baran bo Odar e Jantje Friese.
Per eliminare qualsiasi dubbio, soprattutto quando si profilano all’orizzonte complicazioni metafisiche, la prima produzione tedesca della celebre piattaforma internet gioca sul sicuro, offrendo un discreto quantitativo di colpi di scena e di scoperte sconcertanti, anche all’interno della singola puntata, costringendo l’utente prima a bruciare le tappe per arrivare all’agognato epilogo e poi a farlo attendere con impazienza la già annunciata seconda stagione.

Beninteso, Dark non è adrenalinico come 24, tuttavia tratta ogni personaggio come la tessera di un mosaico perennemente scombinato. Lo spettatore è chiamato a un continuo sforzo per riordinare il quadro, col risultato che quella riflessione sull’esistenza umana soffoca al cospetto di una narrazione nella quale la descrizione dei fatti supera di molto il racconto dei sentimenti.
La citazione iniziale è il punto cruciale di una serie che prova a confrontarsi in modo esplicito con il concetto di tempo. Non il primo lavoro, né l’ultimo, a riflettere sullo scorrere dell’esistenza, sulla dicotomia causale/casuale, sulla relazione tra passato, presente e futuro, sulla possibilità di modificare l’irrevocabile e di indirizzare l’imprevedibile, di controllare le due assenze, ciò che non è più e ciò che non è ancora. Sul sentirsi parte passiva o creatori attivi di un tutto.

Siamo nel 2019, in una cittadina sperduta della Germania, dove sembra non accada niente. E invece, come a Twin Peaks (ma senza la spiazzante ironia di Lynch) o nel paesino di montagna di Les Revenants (la stupenda serie francese a cui Dark, più di Stranger Things, pare fare riferimento per atmosfere e riferimenti paesaggistici, con la centrale nucleare a sostituire la diga), segreti e trame oscure si scontrano con qualcosa di soprannaturale. Al tragico caso di ragazzi che scompaiono nel nulla, si somma la presenza di un varco temporale che permette di viaggiare a ritroso nel tempo, per la precisione a regredire al 1986, all’indomani del disastro di Chernobyl, e al 1953, in una Germania pronta alla ricostruzione. Di 33 anni in 33 è possibile modificare gli eventi e con ciò creare dei paradossi che ovviamente non anticipiamo per non cadere nel peccato capitale dello spoiler.

Come accade in altre opere, Dark non sfugge a un’ambiguità irrisolvibile quando si ha a che fare con un racconto sul tempo. E talvolta riesce anche a darne conto, soprattutto nel momento in cui gli autori si liberano dall’ossessione di far accadere cose senza sosta e concedono allo spettatore un respiro in più. Tornare indietro nel passato fa riflettere sulla possibilità affascinante di modificare la vita propria e altrui, dando all’agire l’illusoria connotazione del controllo totale. Una falsa prospettiva, però, perché solo da un punto di vista metafisico si può pensare a un attore in grado di trascendere il mondo e osservarlo con distacco divino. Chi agisce lo fa sempre nel suo presente, tra un passato e un futuro, un prima e un poi. È la vita che fa scorrere i secondi anche quando non procedono linearmente dall’uno al due, al tre, al quattro…