Dalle lotte di classe del secondo dopoguerra all’autunno caldo del ’69; è questo l’arco di storia politica tracciato da Morte e resurrezione di un pupazzo, l’ultimo spettacolo della Comune che si replica in questi giorni a Roma con grande successo. Il compagno Darlo Fo, ineguagliabile animatore dello spettacolo, ha accentuato questa volta la caratteristica di teatro popolare, verso cui da sempre si muove la sua ricerca, con il «ritorno» alla tradizione delle maschere, dei burattini, della commedia dell’arte.

Il distacco tra attori e pubblico è così ridotto al minimo, non solo per la qualificazione di classe dello spettacolo ma anche perché la funzione «provocatoria » del teatro viene resa esplicita, integrante dello spettacolo, perdendo la maggior parte del suo elemento di mistificazione.

Morte e resurrezione di un pupazzo si avvale, anzitutto, di un’efficace invenzione teatrale: il «pupazzone» – il sistema, capitale, borghesia, esercito, magistratura, chiesa – e il « drago » – il proletariato, con le sue lotte, la sua resistenza, le sue sconfitte. Simboli semplici e giustamente didascalici, sui quali sfilano momenti e figure storielle precisi: Stalin, Togliatti, Mao, il disarmo fisico e ideologico della classe operaia italiana nel dopoguerra, la vittoria della guerra di popolo in Cina, la degenerazione revisionista in Italia, l’ottundimento indotto dal neo consumismo, il risveglio della coscienza di classe proletaria.

Tutto questo ruota su una coordinata fondamentale: la critica, storica, teorico e politica, al revisionismo e al riformismo. Il risultato è di notevole efficacia sia culturale, cioè politica, sia spettacolare. Ma non tutto il discorso portante del Pupazzo ci trova concordi, e ci sembra utile discuterne. Dopo la vittoria popolare della resistenza, dicono i compagni della Comune, si apre un periodo oggettivamente e soggettivamente rivoluzionario.
Con la teorizzazione della «via italiana al socialismo», della costituzione, della alleanza con i ceti medi, il gruppo dirigente del Pci opera una cosciente scelta controrivoluzionaria e trasforma il partito nella forza tatticistica, gradualista e coerentemente riformista che conosciamo. Pur nel suo schematismo, la tesi regge; così come è vero che le masse operaie, nella resistenza e nel dopoguerra, mostrarono una disponibilità rivoluzionaria che il partito frenò. Ma resta un interrogativo, storico e teorico, al quale non si può sfuggire: quali sono le radici reali del revisionismo?

La figura di Togliatti, nel Pupazzo appare quella di un «domatore» del movimento, senz’altri motivi che la propria volontà, di colui che incita alla «calma» perché vuol collaborare col capitale. Il revisionismo, insomma, altro non sarebbe che la storia del « tradimento» dei capi, rispetto a un movimento sempre, spontaneamente, rivoluzionario (una sola battuta, ci pare avanza un dubbio, quando si dice che «ci sono anche tanti operai menefreghisti»).

Rispetto alla sconfitta operaia nei dopoguerra si trascura del tutto un elemento di importanza non secondaria e cioè che il frontismo si fondava anche sulla fiducia nell’inevitabile avvento della rivoluzione, nell’Urss come suo punto di riferimento, potendo cosi sposare una pratica gradualista e parlamentarista a una grande tensione ideologica. In questo senso, i dirigenti del partito non cessarono «mai» di parlare di rivoluzione, e stalinismo, togliattismo, riformismo, insieme ad un fortissimo ideologismo massimalistico sono state componenti non contraddittorie della politica del Pci negli anni ’50.

Qui si inserisce l’altra questione che nel Pupazzo lascia perplessi: il modo con cui è visto Stalin. I compagni della Comune fanno propria la definizione cinese di uno Stalin «grande rivoluzionario che ha anche commesso degli errori». In realtà, essi sembrano avere della figura di Stalin la stessa visione del Pci degli anni ’50. Non a caso Togliatti questa definizione la condivise sempre: stalinismo e togliattismo non sono in antitesi, né la politica estera staliniana fu una politica di internazionalismo rivoluzionario: il rapporto dell’Urss con la rivoluzione spagnola, con quella cinese, con l’insurrezione greca, la «svolta» del ’34 e la politica dei fronti popolari sono tutti elementi che non è lecito trascurare quando si parla di Stalin.

Questo spettacolo insomma è bello («bello» per noi non è una definizione puramente estetica) ed è politicamente interessante, ma il suo limite sta nell’approssimazione politica. C’è una battuta rivelatoria: «I gruppi – si dice – cominciano a capire che bisogna unirsi, abbandonare i settarismi di parrocchia e andare alla costruzione del partito rivoluzionario». Non è solo una battuta un po’ ingenua: è il rivelatore di quella visione semplificatrice dei problemi della rivoluzione nel nostro paese (e quindi del revisionismo) che rischia di ridurre il lavoro della Comune a una generosa esortazione piuttosto che farne un contributo alla costruzione politica reale del movimento.

(2 marzo 1972)