I suoi primi piani d’autore che campeggiano nel salone della sua casa ci riportano alla memoria un uomo magro, ossuto, inquietante, con i capelli a caschetto di colore corvino che guarda in tralice gli ospiti e riporta ad atmosfere gotiche (erroneamente) dimenticate. Oggi Dario è un signore lontano dalla figura eterea trasmessa da quelle foto, persino accattivante, ospitale. Ci sono momenti però in cui ti guarda fisso negli occhi e pensi che magari stia per ipnotizzarti, fra poco girerà la testa da un’altra parte per poi voltarsi nuovamente verso di te trasformato e sfigurato (in fondo, il diavolo non è nei dettagli?) e il suo sguardo ti inchioderà alla sedia…

È in sala il suo nuovo film, Occhiali neri, con Ilenia Pastorelli ed una convincente Asia nel ruolo di un’accompagnatrice di ipovedenti. Argento non effettua mai provini ma solo degli incontri informali durante i quali uno sguardo, una cadenza, un intercalare sono sufficienti a risolverlo per attribuire la parte.

È da poco uscito il tuo ultimo film, un thriller con incursioni nel terrore puro di cui non sveleremo la trama, c’è una cosa però che mi ha incuriosito molto, l’eclissi di sole che prelude ad un mondo di tenebra nel quale piomba improvvisamente la protagonista. Da dove ti è venuta questa visione?
Mi ronzava in testa l’idea di una profezia, di un presagio, qualcosa che fosse sospeso nei perimetri del sogno ed ecco fatto.

Il tuo ultimo film, «Dracula», è di dieci anni fa. In un lasso di tempo così ampio, un regista come te che cosa fa, che esperienze vive?
Sai, mi ero stancato di essere sempre presente al box office, di girare un film dopo l’altro, avevo bisogno di staccare. Ho viaggiato molto, letto moltissimo, anche oziato; l’ozio, spesso, è il contenitore ideale per la creazione. E poi è arrivata la pandemia. Asia andava rovistando nei cassetti per trovare materiale per la sua autobiografia e tirò fuori uno scritto ormai dimenticato, Occhiali neri appunto, un soggetto che avevo scritto vent’anni fa. Se ne appropria , lo legge e ne rimane entusiasta. Il lockdown che ha costretto in casa milioni di persone, ha isolato anche me e allora mi sono buttato a capofitto per lavorarci, per attualizzarlo ed eccoci al film.

Leonardo Cendamo /GettyImages

Qual è, secondo te, il nostro orrore quotidiano?
Cambia in continuazione, adesso potrei dire la paura che scoppi una guerra nel centro dell’Europa. Voglio raccontarti una cosa. Gaspar Noé (il regista di Climax)vuole che io faccia l’attore per un suo film. Io sono scettico ma che dico, assolutamente intenzionato a non accettare. Viene a Roma, si piazza in casa mia, seduto dove tu sei adesso, e mi parla del suo film. Continua la mia diffidenza su questo progetto fino a che non se ne esce fuori con una cosa eccezionale: non ha un copione, appena tre paginette, si improvviserà, come nel neorealismo mi dico, e allora accetto. Il suo film,Vortex, parla della vecchiaia. Parla di un critico cinematografico e la moglie malata di alzheimer e la loro discesa nel gorgo, in un vortice appunto. Ecco, ti rispondo, la vecchiaia è orrore. E non è stata forse orrore la pandemia? C’era un nemico sconosciuto e nessuno sapeva come sarebbe andata a finire.

Tu porti sullo schermo il male come in una sorta di transfert -siamo ancora a Freud-, lo collochi in uno specchio per guardarlo negli occhi e liberartene.
Il male ha avuto sempre un grosso fascino su di me. È accaduto da quando ho scoperto Edgar Allan Poe. Ma, anche, Lovecraft.

Tu sei credente. Come tale credi ad un essere antagonista di Dio come il Demonio o l’Anticristo?
L’esistenza del Demonio è una cosa che non mi ha mai convinto molto. Penso che il Bene e il Male coesistano in ciascuno di noi. Come il Bene, anche il Male è prodotto da noi.

So che, durante la scrittura, quando trovi un’idea felice ti capita di spaventarti della tua stessa idea.
Sì, è proprio così, e di solito accade quando mi trovo da solo. Quando scrissi Profondo rosso ero a Mentana, a Santa Lucia per l’esattezza, in un casale disabitato senza neanche la luce. Certe suggestioni mi davano i brividi. Meno male che all’ora di pranzo veniva mio padre e ce ne andavamo in trattoria…

Appartieni ad una schiera di cineasti che detestano di rivedere i propri film.
Non li voglio rivedere perché li considero già il passato. E il passato, spesso, è pieno di difetti. Occhiali neri ho dovuto rivederlo, a Berlino, perché ero seduto in sala insieme al pubblico.

Asserisci di essere un epigono del neorealismo, annotazione interessante. Io e Lizzani ci siamo incontrati molte volte per concordare che Monicelli non è stato il re della commedia ma un epigono del neorealismo.
Ma tutti noi, registi italiani, dobbiamo tutto al neorealismo. Per i temi che il movimento toccava, per la profondità della riflessione, per la libertà di girare con attori improvvisati, per la commistione di dialetti e di lingue. Ti parlavo di Gaspar Noé: mi ha prospettato un film neorealista, almeno nelle intenzioni. Non ci credevo ma la mia recitazione è stata così naturale da farmi vincere a Locarno il Pardo d’Oro per la migliore interpretazione.

«Profondo rosso» è ambientato a Torino, in primavera il Museo del Cinema ti farà omaggio di una mostra articolata; a Villa Beckert hai girato «La terza madre». Che cosa ti lega a Torino?
Un ricordo dell’infanzia. Quando avevo 10 anni mio padre mi chiese se volevo fare un viaggio con lui a Torino. Il primo ricordo è di strade lucide per la pioggia appena caduta ed il silenzio in cui era avvolta la città. Io non ho mai messo piede nella parte esoterica, ma la città mi affascinò a tal punto che mi riproposi, se avessi fatto del cinema, di girarci un film. Mi dici che Villa Beckert è in rovina e ne sono addolorato. Anche allora, quando girammo, la villa era in decadenza. Una via limitrofa era il regno della prostituzione. La sorpresa fu quando entrammo nell’edificio e ci rendemmo conto che era abitato da senza tetto che per poco non ci cacciano. Glielo facemmo capire che dovevamo girare un film e se ne andarono di malavoglia. Ci vollero tre giorni per la disinfestazione! Poi ci spostammo in un altro set ma fu necessario tornare in villa. Quelli si erano già risistemati e noi gli dicemmo: «Ve ne dovete anna’». Erano incazzati neri . La villa era vicinissima a dove viveva Roll che, peraltro, ho conosciuto ma solo superficialmente. Ho frequentato invece, sempre in città, un altro sensitivo, un certo Proverbio.

Qual è il regista di genere che ti ha ispirato di più?
Beh, Mario Bava senza dubbio. Il suo La maschera del demonio è un cult. Ma anche altri. Shining di Kubrick mi ha ammaliato. Che dire di Carpenter e del suo Vampires? Anche Wes Craven mi piace anche se molte volte scade nel commerciale.

Hai conosciuto Christopher Lee?
Siii, eccome! Pensa, gli ho fatto una lunga intervista commissionata da Sky in occasione del Festival del Noir a Courmayeur. Era una persona squisita, elegante, molto colto. Mi parlò con molta nostalgia dei parenti, alcuni dei quali cantanti lirici, lui stesso avrebbe voluto fare il cantante. Mi capita sempre più spesso, per conciliare il sonno, di vedere un horror. Se invece vedo un film sulla shoah ho gli incubi.

Beh, certo, a chi non fa venire gli incubi la tragedia della shoah? e i misfatti della mafia? I film horror invece sono finzione, fantasia, allucinazione, c’è forse un meccanismo interiore in te che ti fa dormire perché sai che non possono diventare realtà

Intervista fatta, per i patiti di coincidenze, per gli amanti del soprannaturale, per gli assidui della numerologia, il 22.2.22