Sangue che cola, su grande schermo. Ma fuor di schermo Dario Argento, 78 anni e sempre gran giocoliere del brivido, è mite, docilmente sorridente: l’incolpevole perfetto. Anche a cena, rifugge da menu sanguigni, mediterranei e s’immola all’esangue, farmaceutica cucina nipponica, dove conduce al sacrificio ospiti e complici della serata che l’ha visto protagonista all’Institut Culturel Italien con una divertita master class, la proiezione di Profondo rosso, integrale e restaurato, e la presentazione di Peur, edito da Profond Rouge, versione francese di Paura (Einaudi, 2014), con infinita processione di fans per le dediche di rito. Cinema e scrittura si scambiano spesso i ruoli in Dario Argento: nella vita artistica e, talora, in uno stesso film, come in Tenebre, dove l’assassino prende spunto da un libro, Tenebrae, di Peter Neal. Film con un involontario valore aggiunto: la scena in cui Veronica Lario viene fatta a pezzi con un’accetta. Era il 1982: dieci anni prima della ‘discesa in campo’ di Berlusconi, con promozione di Veronica a first lady.
Una vendetta preventiva?
No (ride), la Lario era un’ottima attrice, perfetta nel ruolo.
A pezzetti o intera ?
Intera. Una vera sorpresa per me.
Rispetto al resto del suo cinema, fiammeggiante di fantacolori, «Tenebre» pare un B/N. Perché?
Mi ero immerso nelle architetture dell’Eur, a Roma, gioiello del fascismo : un microcosmo metafisico, totalmente bianco, di marmo.
Spettri d’architettura?
Mussolini voleva farne la sede dell’Esposizione Universale del 1942. Ma con il disastro della guerra, l’Eur è diventato uno scheletro architettonico, obelisco cimiteriale.
Già «Profondo rosso» s’astraeva nei fantasmi mussoliniani.
SonO sempre stato un maniaco dell’inquadratura, dei giochi cromatici. Via Roma, a Torino, dove ho girato il film, è una piccola Eur piemontese: specie nella piazzetta con le statue marmoree protese sulla fontana.
Il fascismo va a pennello con l’horror?
Non è questo: è che ogni volta, sia nei film che nei libri, mi attraggono architetture o dipinti in sintonia con atmosfere e incubi che voglio evocare.
Il primo dei sei racconti del suo nuovo libro, «Horror», è ambientato agli Uffizi e lei ne è protagonista: autore-vittima?
Ho ripercorso il museo in marzo alla presentazione del volume. E come sempre, infischiandomi della testa mozzata di Oloferne nella Giuditta di Rubens o delle crocifissioni più splatter del Trecento, quando son giunto nella saletta in ombra con la testa di Medusa di Caravaggio, sono ancora una volta rimasto allibito, davanti a quell’intrico di serpenti, a quell’urlo muto di terrore. Dalla prima volta che l’ho visto, ho fantasticato su questo e altri quadri, davanti ai quali ogni giorno c’è qualcuno che sviene o scoppia in lacrime.
La sindrome di Stendhal.
È proprio in vista delle riprese di questo film del ’96 che mi ero fatto autorizzare a visitare gli Uffizi di notte, in cerca di emozioni e paure all’apparire dei quadri illuminati da una pila. Tutto solo. Con un assistente, ma subito svanito.
Risucchiato dalla Medusa?
Risucchiato da tutt’altro. Di notte, gli Uffizi sono spenti: è tutto nero. Esperienza unica : come far luce su quel che passava per la testa di quel matto di Botticelli o di Artemisia Gentileschi, violentata dall’assistente del padre Orazio, primo processo per stupro, in cui però il colpevole non fu condannato, suscitando nella pittrice un odio feroce contro gli uomini.
S’è messa a tagliar loro la testa, in soggetti ricavati da Bibbia o mitologia. Son questi gli artisti che hanno influenzato il suo cinema?
Sono tanti, tanti. Felice Casorati, per esempio. Un altro è un caravaggesco, Guido Reni, cui era dedicata una mostra al Grand Palais, dove l’ho scoperto, nei mesi precedenti le riprese a Parigi, 20 anni fa, del Fantasma dell’Opera. Ho acquistato il catalogo e l’ho portato sul set. Al direttore di fotografia, Ronnie Taylor, premio Oscar per Gandhi, mostravo, prima di ogni scena, il quadro di Reni con i colori che volevo. Alla fine, Ronnie era esausto: «No, Dario, ancora?…»
Tutti i suoi film son défilés d’arte. Addirittura, in «Profondo rosso», il corridoio è una Galleria di dipinti del cuore.
Non solo la pittura. Pure l’architettura è per me fondamentale: non sono un architetto, come Antonioni, ma, come in Antonioni, son le traiettorie fantasmatiche dell’architettura a guidarmi.
Anche le architetture sonore della musica: di cui condivide, brividi a parte, un autore proprio con Antonioni.
Giorgio Gaslini? Sì, 15 anni dopo La notte, l’avevo chiamato per Profondo rosso, dove però l’ho fatto sommergere dai Goblin, per me la nuova generazione musicale. Lui non l’ha mandata giù. Nell’autobiografia, ha scritto di me: «Un buon regista, ma un gran figlio di …»
Pure con il ‘dio’ Morricone, non è sempre stato un idillio, vero ?
Ho lavorato 5 volte con lui: è uno dei più grandi al mondo. Ne era grande amico mio padre, produttore dei miei primi film. Per L’uccello dalle piume di cristallo, esordio mio e di Vittorio Storaro, avevo pensato ai Pink Floyd, ma erano in tour, perciò son passato a Morricone: tutta musica improvvisata sul set, lui suonava la tromba. L’avevo conosciuto due anni prima sul set di C’era una volta il West, io un ragazzotto, lui già grande.
Il suo cinema è attratto dall’occulto, dall’aldilà : dà impressione che lei ci creda davvero.
No, non credo all’occulto. Mi piace lasciarmi andare al trascendente dei grandi scrittori, come E.A.Poe. Suspiria era sulle streghe. E ho attraversato l’Europa per incontrarle: in Svizzera, in Germania, molto rinomata nel settore, in Belgio, d’antica tradizione. Ho conosciuto sedicenti streghe, non ne ho mai percepito le peculiarità. Ma il tema-streghe è interessante.
Leitmotiv del suo cinema son le psicosi dei suoi orridi assassini, originate spesso da traumi domestici: è la famiglia la fabbrica di killers?
Sì, la famiglia è culla di tutte le prigioni e pulsioni di noi adulti.
Appendice inevitabile: è convinzione autobiografica ?
No. La mia famiglia era molto libera, io avevo i miei libri, mio padre era produttore, mia madre fotografa: Elda Luxardo, sorella del notissimo Elio Luxardo. È mia madre che mi ha insegnato a guardare. Era specializzata nella fotografia delle donne. Io andavo a scuola vicino al suo Studio, al pomeriggio facevo i compiti da lei. E guardavo. Che apparizioni … Sofia Loren … Corpi fantastici … Si spogliavano… Io guardavo : con un occhio studiavo, con l’altro guardavo. Mia madre metteva la luce sui visi ed era un incanto: m’ha insegnato a illuminare la donna, che nei miei film è, al 70 per cento, protagonista.
E che muore quasi sempre e quasi subito.
(Minimizza) Tutti moriamo.
Ma la morte, nei suoi film, è sofisticata : un artificio agghiacciante, talora d’elaborata artigianalità.
Se si riferisce a Phenomena, sì, le mosche che formicolano sulla facciata del college sono caffè macinato immerso in un liquido oleoso. Ma se la bambola meccanica di Profondo rosso è diventata oggetto di culto della paura, è tutto merito di Rambaldi: il più grande. Dopo quel film ha fatto la sua carriera in Usa. Ma l’Italia gli è sempre rimasta dentro per un episodio surreale, che non s’è mai stancato di raccontare. Per un film mi aveva costruito cadaveri: perfetti, più morti dei cadaveri veri. A Cinecittà li aveva messi nel bagagliaio. La polizia lo blocca. E sua moglie a spiegare, no no, guardate, toccate qua, è finto, tutto finto…
George A. Romero era il grande allevatore di cadaveri.
Siamo stati amicissimi, pur avendo idee molto diverse sul modo di fare cinema. Quando ci siamo incontrati a New York, erano anni che non girava più un film. Era triste. Mi ha dato un soggettino, molto bello, che gli ho prodotto. Era venuto a Roma a scrivere la sceneggiatura, in una zona archeologica, con gli archi in rovina…Ha ritrovato l’entusiasmo, è tornato il regista che era prima. È nato così Due occhi diabolici, nel ’90, da E.A.Poe, realizzato insieme, un episodio ciascuno.
L’altra sua grande complicità artistica è stata con Asia, sua figlia.
Cinque film con lei. Ha pure interpretato La terra dei morti viventi di Romero. È nata l’anno di Profondo rosso: 1975. Ho sempre avuto voglia di lavorare con lei. Aveva visto i miei film e compreso il loro spirito. Una collaborazione bellissima, anche dura. Le dicevo : ‘Ora vai in camera e domani mi porti qualche idea’. Lei era entusiasta.
A tutti gli attori ha chiesto d’essere collaboratori?
Sì, a cominciare da Daria Nicolodi, mia musa e madre di Asia. Diversamente da Hitchcock, per me gli attori non sono ‘bestiame’. Non sono un burattinaio: mi piace che l’interprete dia qualcosa di sé, della sua personalità, dei suoi sogni, che sono essenziali al nostro lavoro. Alcuni hanno dato molto. Quelli dell’Actors Studio han dato troppo: ho dovuto frenarli. Altri non hanno dato nulla.
Da uccidere subito.
Non potevo, eran protagonisti. Per esempio, in Opera, con Cristina Marsillach ho litigato dal primo all’ultimo giorno. Siamo arrivati al punto che comunicavamo attraverso i relativi assistenti : ‘Dille che…’, ‘Digli che…’. Una volta ci siamo incrociati in un corridoio: due estranei.
In ogni film, le mani dell’assassino son le sue. Cameo feticista? O ritiene che nessuno al cinema sappia uccidere bene come lei?
C’è una ragione. Al mio esordio, L’uccello della piume di cristallo, non facevo altro che mostrare all’interprete come doveva pugnalare. Mio padre, anche produttore, s’è stufato: ‘Ma tu sei così bravo : fallo tu’. È stato il mio battesimo di pugnalatore. Poi, nel film successivo, quando ho cominciato a spiegare, mio padre m’ha interrotto : ‘No, d’ora in poi, lo fai tu’.